Sono trascorsi sessantadue anni da quando Stanley Kubrick fece scalpore con il suo Lolita, ispirato all’omonimo romanzo di Vladimir Nabokov. Passato anche attraverso un remake del 1997 di Adrian Lyne e con Jeremy Irons, scopriamo insieme perché non ha perso un grammo del suo fascino originario, sempre in equilibrio sul filo di una provocazione crudele ed efficace ancora oggi.
Il male dalla facciata ordinaria
Lolita si presenta come un unicum già nella filmografia di Stanley Kubrick. Nessuna ambientazione lontana: non ci sono le astronavi di Odissea nello Spazio, niente futuri distopici alla Arancia Meccanica, né passi indietro nella storia come in Barry Lyndon e neanche l’inferno della guerra di Full Metal Jacket. La storia di Lolita, infatti, si svolge in un comunissimo sobborgo del New England, nell’estate del 1947. È qui che il maturo professor Humbert Humbert (James Mason), europeo in cerca di alloggio, perde la testa per la preadolescente Dolores “Lolita” Haze (Sue Lyon), figlia della sua proprietaria di casa Charlotte (Shelley Winters), che sposerà proprio per avvicinarsi alla giovanissima ragazza.
Proprio per il setting così quotidiano, la minaccia non sono antichi spiriti, né cecchini, né gang ultraviolente o la bomba atomica. Il male qui arriva nella sua forma più subdola: nascosto dietro un sorriso cortese ed un’apparenza rispettabile, quelli del professor Humbert, che sviluppa un’ossessione perversa per una ragazzina, in quello che è nulla di meno di un atto di pedofilia (nel libro Lolita ha dodici anni: nel film la sua età non è specificata, ma non va ancora al liceo).
Non c’è violenza fisica (o quantomeno non è mostrata), ma quella psicologica è sullo stesso piano di gravità: Humbert e Dolores sviluppano un rapporto malato – che si accentua dopo la morte accidentale della madre di lei – in cui il professore diventa sempre più oppressivo e geloso di tutti i ragazzi che lei frequenta, arrivando anche a vietarle la recita scolastica e ad allontanarla dall’istituto, mentre al contempo ne è sempre più dipendente, illudendosi che ricoprirla di regali in qualche modo lo assolva dalle sue azioni.
Lolita e il ciclo della manipolazione
I personaggi di Lolita sono intrappolati in un circolo vizioso di reciproca manipolazione. Humbert in primis è il carnefice degli altri e di sé stesso. È lui a iniziare questo ciclo, approfittandosi dell’ingenua Charlotte, che sfrutta a proprio piacimento con il solo obiettivo di ottenere sua figlia, sulla quale riversa il proprio desiderio malsano, piegandola costantemente alla propria volontà, diventandone però a sua volta dipendente.
Lolita, infatti, è cresciuta con una madre ostile, che l’accusa di essere un mostro, e infatuata di un altro uomo, quel Clare Quilty (Peter Sellers) che tutti ammirano per la sua brillantezza. L’unica arma di difesa della ragazzina, quindi, è proprio il potere che esercita su Humbert e su cui fa necessariamente leva in una relazione morbosa ed ossessiva, dalla quale non riesce ad evadere fin quasi alla fine.
La sua via di fuga si deve proprio a Quilty, il commediografo che durante tutto l’arco del film si diverte a circuire Humbert cambiando travestimento di volta in volta, dallo psicologo al poliziotto, seguendo gli spostamenti di lui e Dolores e prendendosi gioco del professore fino in fondo, anche nella scena iniziale-finale, in cui fronteggia con ironia il proprio omicidio per mano dello stesso. Perfino la morte è l’ultimo smacco ad Humbert: l’assassinio di Quilty condurrà in galera il professore, dove troverà la propria fine per mano di una malattia.
Lo stesso Quilty, però, non fa tutto questo per eroismo: conscio del suo ascendente sulla ragazza, il suo desiderio non è altro che tenerla per sé, al pari di Humbert, e le promette Hollywood, che si rivelerà essere però la partecipazione ad un film artistico.
Lolita riesce finalmente a spezzare questa catena e ad andarsene per la sua strada, sposando, dopo quattro anni, Dick, un ragazzo che sembra amarla genuinamente.
In Lolita Kubrick ride della malvagità umana
La tematica del film è scabrosa e sarebbe considerata difficile ancora oggi, a più di mezzo secolo di distanza. Kubrick sceglie, all’avanguardia per i tempi, di sbeffeggiare il male, piuttosto che limitarsi a condannarlo. Pur essendo una pellicola drammatica, Lolita assume infatti spesso dei toni da commedia nera: dalla colonna sonora leggera all’ironia che permea il racconto (pensiamo alla scena iniziale), fino al personaggio di Humbert, che viene via via sempre più ridicolizzato, a cominciare dal suo nome completo.
Humbert Humbert è un uomo patetico, che si rifiuta di ammettere la propria natura malvagia e degenere, e che sprofonda sempre di più nel delirio, schernito da quella stessa ragazzina alla quale stravolge la vita – evento rappresentato nella morte di Quilty -, colpito dai proiettili di Humbert che trapassano prima il ritratto di una giovane donna.
Kubrick sa che prendersi gioco di eventi negativi non significa ridimensionarli, né abbassare la guardia, ma attenuarne il potere, e nel fare ciò può contare sulla bravura eccezionale di tutti i suoi interpreti, a cominciare dalla coppia centrale, James Mason e la sedicenne Sue Lyon, che pur esordiente s’impone con la sua presenza scenica magnetica. Il regista di Shining non risparmia neanche una stoccata all’America perbene degli anni Cinquanta, ribadendo più di una volta – per voce, ad esempio, della stessa Charlotte – come l’ambiente si professi progressivo, liberale e all’avanguardia, ma sia così concentrato sulla propria apparenza da non riconoscere i mostri tra le sue stesse mura.
Lolita è la storia tragica di figure che si alternano nel reciproco controllo delle vite altrui, illuse di averne lo scettro, ma senza davvero il timone sulla propria esistenza, e di come la crudeltà possa arrivare anche nelle forme e nei contesti più inattesi.
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