I classiconi non deludono mai. Anche se è giusto riscriverli. E, compito del cinema, è quello di inventare, spaziare con la narrazione, andando oltre alla Storia, ritrovare il senso della realtà primaria in quella del racconto per immagini.
Fabrice Du Welz, regista di Maldoror, ritratto dalla fotografa Stephanie Cornfield a Venezia81
Il principio su cui si basa Maldoror di Fabrice Du Welz, presentato all’81esima della Mostra del cinema di Venezia, si basa essenzialmente su questo. Cercare di ricostruire una storia a partire da un punto di vista specifico e prettamente emotivo, basato su fotografie, sguardi verso finestre (e cantine) del mondo.
Cosa ha ispirato Maldoror? La storia vera
La realtà oltre le immagini che – come ha ricordato lo stesso regista belga, già al Lido nel 2008 con Vinyan – lo ha ispirato per la trasposizione della storia del Mostro di Marcinelle, è quella del killer pedofilo che intorno alla metà degli anni ’90 ha sconvolto l’opinione pubblica di un paese intero, il Belgio, e ha fatto brancolare nel buio per anni la polizia (tra le altre cose, in un momento in cui quest’ultima si confrontava con una profonda crisi gestionale).
A partire dalla comunità di Charleroi, città di cui fa parte Marcinelle appunto, quartiere storicamente operaio e composto da figli di ex-minatori, si inanella la storia raccontata in Maldoror, che indaga sul turbinoso quanto polveroso caso mediatico. Du Welz entra tra le maglie di una società (quella poliziesca) in crisi, da una parte continuamente scossa dall’opinione pubblica, scandalizzata dalla scomparsa di due ragazzine e aizzata dai media, e dall’altra immobilizzata dall’incomunicabilità tra i reparti di sicurezza. Lo fa attraverso un giovane agente, Paul (Anthony Bajon), prossimo al matrimonio con Jeanne (Alba Gaïa Bellugi), e con un figlio in arrivo.
Maldoror è una chiamata, quasi una sfida, al pubblico. Un polar che fa del true crime (oggi, sottogenere narrativo che va per la maggiore) la sua chiave di forza, nella trascinante pellicola interpretata e inscenata benissimo da tutto il reparto tecnico e attoriale (tra cui Alexis Manenti). Di per sé il contesto, quasi un fantasma, spettro di un passato mai chiuso, dona suspence e materiale visuale organico che Du Welz fa scorrere fluidamente per le oltre due ore e mezza di durata.
Chi è il vero mostro?
Tutto questo anche e nonostante il fatto che l’assassino non si palesi mai.
Du Welz preferisce mostrare il buio rispetto alla luce, vuole dare la parvenza di un caso irrisolvibile piuttosto che la speranzosa rinascita di un buon finale. E nel farlo mostra il marcio che arriva dagli stessi organi di polizia: gli interessi personali ed egoistici degli ufficiali precedono la giustizia, il disinteresse generale divampa, la stampa urla (abbiamo già detto che è un classicone?). Ma sta anche qua l’elemento di interesse del film.
Da una questione di stato (lo scandalo legato alla gestione della sicurezza in Belgio) si passa, come se quello fosse solo un grande McGuffin, al punto focale, che si concretizza nella terza parte di Maldoror, ovvero Paul: un protagonista dapprima impacciato ma volenteroso, e poi vittima della sua stessa psiche in caduta libera.
È il C’era una volta di Du Welz, che come nei Canti di Maldoror di Lautréamont (a cui il titolo fa diretto riferimento), il mostro passa dall’essere quello di Marcinelle a quello che racchiude l’umanità intera. Ricorda che per ogni Dostoevskij dei Fratelli D’Innocenzo c’è un Maldoror di Du Welz, che l’insensata natura umana si trasforma sempre in violenza, gratuita ed eversiva, scellerata e fine a sé stessa.
Il film gioca molto sulla psiche del protagonista, ingannando lo spettatore, consumando la storia, “rubando” tempo alle indagini che, tuttavia, arrivano sempre a un punto cieco. Dona la costante sensazione che le scie di sangue scorrano sempre dalla parte opposta rispetto ai fili rossi degli indiziati sulla lavagna della polizia.
Paul diventa un tutt’uno con il killer e, con esso, il film stesso; un’operazione che quindi mette il cinema su un piedistallo, dà una chiave di lettura e si sostituisce alle ore e ore, metri e metri di “pellicola” televisiva, e degli approfondimenti giornalistici che hanno reso sempre più nebuloso il dibattito pubblico. Proprio per questo Maldoror è un classico, un sempreverde a cui lo spettatore dà linfa, non tanto perché si rispecchia, piuttosto perché empatizza con l’ossessione paralizzante del protagonista, abbraccia il disordine e attraverso ciò dà un ordine, cancellando la spettacolarizzazione della tragedia. Divampa la vendetta e scorre il sangue, niente più. Viene mostrata crudité la violenza e il delirio nato dalla semplice malvagità dell’essere umano.
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