Ci sono pochi lavori che stupiscono quanto è riuscito a fare Peacock, presentato dalla selezione parallela di Venezia81 della Settimana Internazionale della Critica (Sic), e diretto dal rigore registico dell’austriaco classe ’92 Bernhard Wenger, qui tra l’altro alla sua prima regia e con un cast che conta anche la giovane Theresa Frostad Eggesbø (Ragnarok).
L’arte di fingere per lavoro (e nella vita)
Il lavoro di Matthias (Albrecht Schuch) consiste nel fingere. La sua agenzia si occupa infatti di ingaggiare “attori” che accompagnano e interpretano vite di altre persone a seconda delle richieste dei clienti. Fratello, figlio devoto, fidanzato per un giorno. Qualsiasi cosa essi chiedano Matthias c’è; e tra tutti gli incaricati dell’azienda è uno dei migliori. Forse anche troppo, perché per via del suo lavoro la fidanzata, con cui vive felicemente, un giorno lo lascia. «Sei troppo finto», gli dice.
Ma, come recita un vecchio adagio, si chiude una porta e si spalanca una finestra. Peacock è un modo di raccontare come l’uomo contemporaneo ormai viva nella solitudine stordente della realtà, in una comfort zone permanente, fittizia quanto lo è la stessa esistenza del protagonista. Wenger è meticoloso nel rappresentare questo distacco dalla “vita vera”: dalla casa di design, spazio all’apparenza perfetto ma con tutte le incrinature sottese, veicolo sterile di oggetti vuoti di significato e senso, fino agli animali che riempiono la scena rappresentando probabilmente l’unico elemento di esoticità (Peacock non a caso il titolo).
La recitazione, asciutta, grottesca, e le situazioni inaspettate, lasciano un velo di tensione per tutto il minutaggio di Peacock. E poi quella regia, così spenta in un immobilismo che riempie e svuota allo stesso tempo l’inquadratura. Wenger perlustra i lati più arzigogolati della insensatezza che circonda il protagonista, posizionando quindi la macchina da presa in angoli specifici, e cerca di rapire quegli attimi in cui Matthias sembra pronto a fare il grande salto e a cambiare vita.
Peacock, senza sé senza ma
Un’esistenza la sua finora ridotta a un’entità ectoplasmatica, accomodata nell’agio borghese di un’identità mai costruita (se non sulla base del servizio verso le esigenze di altre persone) e che non è mai stata messa in discussione. Solo dopo un momento di rottura della routine, il vero e proprio corto circuito della vita, i dubbi e i “forse” vengono a galla. Forse sono noioso, forse sono annoiato, forse fingo perché non ho mai imparato a essere vero con me stesso, forse sono davvero il risultato del mio lavoro.
Attraverso la messa in scena che esprime un’ironia diretta e che lavora sulla rappresentazione dell’assurdo, Peacock nasconde una sottile verità: la piattezza della storia del protagonista è in realtà lo specchio di un sistema sociale che mira a funzionare solo qualora tutti gli individui siano liberi, paradossalmente, in un contesto dove si richiede di essere parte di un tutto annichilito dal consumismo e dal prodotto generato dal lavoro. Il film funziona così come parabola della modernità, rappresentazione del pragmatismo comune ereditato dal capitalismo liberista. Ci sono non pochi motivi per identificarsi nella vita di Matthias, il quale invade il Lido con la sua presenza spettrale. Dell’uomo che che c’è, ma allo stesso tempo non lo vedi.
Per questo la contraddizione dell’era digitale, in Peacock ovviamente fa sentire la sua presenza (dalla casa domotica ai robottini automatici che tagliano l’erba), sta nella sua indefinitezza, nella fine della matericità che lascia il posto al trionfo dell’oggettivismo. Matthias è il supporto per dipingere una tela, sbattuto come un pennello da action painting, in balia degli eventi alla ricerca continua di un futuro. Un attore senza uno scopo, in cerca del suo personaggio.
In Peacock, Wenger ritrae così con gusto, ironia e un pizzico di delirio la paradossale vita di un uomo inconsapevole di vivere in un contesto che l’ha modellato a sua immagine. La verità della realtà contemporanea, che il regista austriaco riesce a cogliere con freddezza e profondità. Ci narra un viaggio dalla fantomatica comfort zone fino alla probabile Realtà. Siate come pavoni, abbandonate i pregiudizi. Cambiare è possibile? No, ma forse (un altro) saremmo meno abbandonati alla nostra stessa solitudine.
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