Cosa non va in Q-Force? A parte la trama, quasi tutto. Se guardata da un occhio un po’ antiquato, Q-Force può sembrare una serie animata, irriverente e giovane. Purtroppo per coloro che leggono tra le righe della trama, la Serie TV si rivela l’ennesima occasione mancata. A partire dalla rappresentazione dei protagonisti, la produzione targata Netflix si appoggia su stereotipi ormai obsoleti al limite dell’offensivo.
La trama di Q-Force in breve
La Q-Force (dove la Q sta per queer) è una speciale divisione di West Hollywood della AIA, la più importante organizzazione di intelligence e spionaggio americana. Tuttavia la vita non è facile per omosessuali, donne e drag queen all’interno di un ambiente alla 007 che trasuda machismo. Questa speciale divisione arcobaleno è formata dal carismatico leader Steve Maryweather, dall’eclettica meccanica Deb, dalla giovane e asociale hacker Stat, dal trasformista Twink e dal noioso Buck. Qualificati e preparatissimi, sono pronti a dimostrare al mondo il loro valore, sempre che riescano ad ottenere un caso!
Q-Force: i personaggi più stereotipati di Netflix
Nonostante già di per sé la conformazione dei protagonisti non abbia nulla di stupefacente, il problema sopraggiunge con la rappresentazione della loro omossesualità. A parte Buck che, come abbiamo già detto, è noioso.
Steve Maryweather, ironicamente soprannominato Agente Mary, è un aitante giovane palestrato che, nonostante abbia il fisico di un adone greco, viene comunque mostrato allo spettatore emotivamente fragile e privo di mascolinità. Chiariamo, non c’è nulla di male nell’essere emotivamente fragili. Semplicemente destinare caratteristiche che nell’immaginario maschilista sono tipicamente femminili in una maniera svilente ad un uomo omosessuale non è propriamente avanguardista (e nemmeno realistico).
Passiamo a Deb, rappresentata un po’ come il genitore del gruppo, casualmente perché è donna. Gli ideatori hanno deciso di costruire il suo personaggio seguendo più stereotipi possibili sulle lesbiche, disegnandola con il fisico tarchiato e mascolino, i capelli corti e assegnandole la passione per i motori. Insomma, Q-Force sembra dirci che una donna per essere lesbica o occuparsi di meccanica deve comunque avere dei tratti mascolini, altrimenti non è concepibile.
Veniamo ora a Stats che ricorda molto la visione che può avere un boomer di un adolescente qualsiasi della generazione Z. Ed infatti è esattamente così: un’indecifrabile e silenziosa giovincella lesbica e gotica, probabilmente anche gender fluid, che sta sempre attaccata al pc con il broncio e apprezza solo cose discutibili. Quasi a sottolineare che se si è depressi o diversi la colpa è della tecnologia e di tutte le insulsità che essa ci inculca. Anche questa una visione stanca e davvero stereotipata.
Twink, poi, si rivela forse il personaggio meno riuscito: una drag queen i cui soli scopi all’interno della serie sono travestirsi e fare battute sulla cultura pop e LGBTQ+. I siparietti comici sono poco efficaci e fanno sembrare il personaggio superficiale, narcisista ed egocentrico. Relegare un personaggio come Twink in un ruolo così marginale e frivolo è degradante e induce a pensare che tutto ciò che abbia a che fare con la femminilità sia fatto solamente di cosmetici, acconciature e vanità.
Infine Buck. La rappresentazione (questa assolutamente riuscita) della mascolinità tossica. Troviamo tutti i requisiti: repulsione verso i sentimenti, battute sessiste mai divertenti, spettacolarizzazione della virilità, omofobia, misoginia e chi più ne ha più ne metta. Peccato che, proprio sull’unico protagonista azzeccato, venga commesso l’ennesimo errore. L’essere represso, volgare e inappropriato viene infatti quasi giustificato dal passato travagliato di Buck. Al posto di fargli (e farci) comprendere che dietro a comportamenti tossici ci sono motivazioni più profonde, Q-Force si limita a perdonarlo.
Come Q-Force avrebbe potuto essere migliore
Il più grande problema di Q-Force è che incentra la sua comicità su una ridondanza fatta di cliché e luoghi comuni, non abbattendoli ma piuttosto perpetrandoli. Il risultato è che la risata non scatta. O perlomeno, non nel pubblico per cui in teoria dovrebbe essere targettizzata. Il padre della serie, Sean Hayes, famoso protagonista di Will & Grace, sembra riproporre la medesima ironia, ormai superata, della celeberrima serie comedy degli anni ‘90.
Passando invece ai protagonisti, per renderli più attuali e consoni sarebbe bastato mettere da parte per un attimo il loro genere e il loro orientamento sessuale e svilupparli semplicemente come persone. Sarebbe stato molto più “rivoluzionario” dipingere questi personaggi in maniera tridimensionale e non relegarli, per l’ennesima volta, nel ruolo della macchietta a causa della loro omosessualità.
La caratterizzazione di Q-Force, oltre ad essere fastidiosa e obsoleta, non permette nemmeno una crescita personale dei protagonisti durante lo sviluppo della stagione. A volte basta poco per rompere uno stereotipo: basta non seguirlo.
Q-Force è solo alla sua prima stagione e, per fortuna, ha ancora tempo per migliorare. La trama è accattivante, con colpi di scena più o meno sorprendenti e uno stile grafico apprezzabile. Tuttavia, deve scrollarsi di dosso la comicità datata e gli stereotipi imbarazzanti.
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Discutibile parlare di stereotipi obsoleti, dato che tra le mie amicizie quegli stessi stereotipi ci sono e in modo fin troppo evidente. Ho trovato la serie più che realistica invece, e proprio per questo mi ha fatto ridere a crepapelle.
Ci vorrebbe più autoironia e più accettazione della dura realtà: possiamo fingere di essere lontani dagli stereotipi, ma essi stessi si fondano su delle verità oggettive. Fare finta di essere “altro” ed obbligare il mondo a vedere “innovazioni inesistenti” ci ridicolizza più di un paio di battute già sentite.