Presence (Steven Soderbergh, 2024)

Presence, ribaltare il punto di vista

11 minuti di lettura

Se c’è un regista che può essere considerato tra i più eclettici e rappresentativi della contemporaneità, quello è sicuramente Steven Soderbergh (Sesso, bugie e videotape, Ocean’s 12), autore capace di girare a distanza di pochi mesi film completamente diversi tra loro, passando dal cinema più commerciale e “di cassetta” a quello più sperimentale senza soluzione di continuità. Se solo tre mesi fa noi italiani abbiamo potuto vedere il suo (bellissimo) thriler Black Bag – Doppio Gioco, in questi giorni lo ritroviamo al cinema con un film ben diverso: Presence, un’opera che, attraverso la sperimentazione visiva e narrativa, rilegge i canoni del cinema dell’orrore – e della ghost story nello specifico – per parlare di cinema e delle immagini con cui vediamo il mondo.

Il film è uscito in sala grazie a Lucky Red a partire dal 24 luglio 2025.

Presence, un’oscura presenza si aggira per casa

Presence racconta la storia di una famiglia – composta da padre (Chris Sullivan), madre (Lucy Liu) e due figli adolescenti (Eddy Maday e Callina Liang) – che si trasferisce in una nuova casa, all’interno della quale abita una misteriosa presenza che segue i nuovi inquilini e li “perseguita” facendo sentire, appunto, la propria presenza.

Una classica storia di fantasmi come molte altre, dunque, se non fosse che per un particolare: il punto di vista della narrazione non è quello della famiglia bensì quello del fantasma stesso. L’intera vicenda viene dunque raccontata attraverso la prospettiva – e lo sguardo, visto che, come si approfondirà in seguito, l’intero film è girato in soggettiva – di un’entità ultraterrena, che si troverà a seguire le vicende della famiglia senza ben sapere all’inizio il motivo di tale pedinamento.

Se da un punto di vista narrativo Presence sembra ricalcare la struttura tipica della ghost story – alcuni dei clichè narrativi del genere vengono rispettati, come l’arrivo nella nuova casa, i membri della famiglia con dei traumi e delle difficoltà alle spalle, le apparizioni del fantasma sempre più grandi e visibili, l’introduzione di una medium che riesce a comunicare con lo spettro -, la vera intuizione narrativa di David Koepp (sceneggiatore del film) risiede proprio nel ribaltamento del punto di vista e del conseguente ribaltamento di genere: se dal punto di vista della famiglia questa è una storia dell’orrore, dal punto di vista del fantasma le stesse vicende assumono le fattezze di un dramma familiare.

Presence (Steven Soderbergh, 2024)

Lo sguardo della presenza – incarnato dalla macchina da presa – segue costantemente i personaggi in giro per casa, mettendo in risalto i loro drammi personali: l’elaborazione del lutto che sta affrontando la figlia, i drammi coniugali vissuti dal padre e le questioni legali che la madre deve affrontare. Inseguendo i personaggi – in una sorta di distorto “pedinamento zavattiniano” -, la macchina da presa in Presence “perseguita” i suoi protagonisti esaltando il lato drammatico della perdita (incarnata dal personaggio di Callina Liang) e della difficoltà di mantenere in piedi una famiglia dopo eventi traumatici. Un ribaltamento di prospettiva dunque che ha un impatto significativo sulla struttura del film, andando così a rileggere il modo di vedere e interpretare i codici del cinema dell’orrore.

L’operazione portata avanti da Presence, lungi dall’essere nuova, presenta comunque una certa dose di freschezza all’interno del panorama del genere. Tale rilettura e alterazione della narrazione dell’orrore e di fantasmi, tuttavia, crolla purtroppo sotto il peso dell’ultimo atto che, prendendo una direzione ben diversa da quella intrapresa dal film fino a quel momento nel tentativo di risolvere i principali nodi narrativi, finisce per portare il delicato dramma familiare che il film aveva finora costruito in territori ben diversi – più vicini all’horror classico, sia pur non sovrannaturale – lasciando aperte a fine pellicola molte delle questioni e delle sottotrame avviate nella prima ora di film.

Una scelta narrativa molto azzardata – come lo sono le altre nel corso di tutto Presence, d’altronde – che finisce per lasciare incompiuto un tentativo di rilettura del genere altrimenti molto efficace.

Presence (Steven Soderbergh, 2024)

Una macchina da presa spettrale per un ripensamento dell’immagine

Se la sceneggiatura di Presence presenta delle falle, ciò che stupisce della visione del nuovo lavoro di Soderbergh è la messinscena. Come si è già accennato, il film è interamente girato con delle inquadrature che, in soggettiva, simulano il punto di vista del fantasma – non solo in ciò che vede, ma anche nel modo di muoversi nello spazio e di interagire con esso e con gli attori in scena.

Soderbergh – per Presence ha assunto il ruolo, oltre che di regista, anche di direttore della fotografia e di montatore – riesce a restituire visivamente tale punto di vista spettrale attraverso soluzioni tecniche molto efficaci: la scelta di lenti grandangolari – che distorcono gli spazi e gli oggetti in scena, aumentando le distanze tra loro e modificandone le proporzioni – e di una steadicam – la quale posiziona la macchina da presa in un punto leggermente più alto di quello dei suoi protagonisti e si muove in maniera fluida – permette di restituire all’immagine filmica una sensazione di alterità, di distanza dalla normale percezione dell’occhio umano, di una visione oltremondana e, per l’appunto, spettrale.

Tale distorsione dell’immagine – che si presenta come evidente anche all’occhio meno esperto, ma mai invadente – mette a tema all’interno di Presence alcune delle questioni che più ritornano nel cinema di Soderbergh: il voyeurismo e la riflessione sull’immagine. La scelta di ribaltare il punto di vista di questa vicenda, dunque, non si presta solo ad un ribaltamento narrativo, ma permette di rendere evidente l’attitudine voyeuristica dello sguardo umano, evidenziando come il modo di vedere le immagini nella contemporaneità sia radicalmente cambiato.

Presence (Steven Soderbergh, 2024)

La tensione e l’attitudine voyeuristica che l’essere umano manifesta, infatti, si presenta all’interno del film proprio attraverso la scelta di rendere personificato lo stesso sguardo della macchina: se, tradizionalmente, la macchina da presa è invisibile all’interno del cinema di finzione, Soderbergh la cala all’interno della narrazione stessa, collocandola con un punto di vista interno alle vicende ma esterno alle dinamiche di visione tipiche dello sguardo umano.

Tale “situazione” dello sguardo della macchina, che per tutto il film insegue – o, appunto, pedina – i personaggi al centro di Presence (anche nei loro momenti più intimi) rende non solo perturbante a livello narrativo l’idea dell’infestazione della casa, ma evidenzia proprio questa tendenza dell’immagine e dello sguardo umano al voyeurismo, associata peraltro a una pratica inquietante, attraverso tale alienazione dell’immagine al nostro modo di vedere il reale. Tale pratica, dunque, allo stesso tempo si distanzia dal modo in cui un normale essere umano guarda, ma proprio attraverso tale alienazione sottolinea i tratti più oscuri e più perversi dell’atto umano del guardare.

Tale tensione al voyeurismo e al nostro rapporto con le immagini risulta altrettanto evidente anche attraverso un’altra delle scelte di regia più significative in Presence: quando un personaggio percepisce la presenza del fantasma nell’ambiente, volge il suo sguardo alla macchina. Uno sfondamento della quarta parete, questo, che si presenta come molto innovativo – allo stesso modo di quello presente in Fleabag -, in grado di evidenziare il modo in cui sia lo spettatore sia l’attore in scena si rapporti alla macchina da presa, allo strumento cinema.

Soderbergh si serve, dunque, del sovrannaturale in Presence non solo per riscriverne i codici, ma anche e soprattutto per ripensare, riflettere e mettere a tema nuovi modi di vedere il mondo, nuove percezioni e prospettive. In un’opera come questa, dunque, in cui l’aspetto narrativo risulta fallace, l’aspetto tecnico – come, invero, in molte opere del regista statunitense – si presenta non solo eccelso, ma anche impegnato in una forma di autoriflessione.

Presence (Steven Soderbergh, 2024)

Pur essendo comunque un’opera meno riuscita rispetto alla precedente Black Bag, Presence riconferma il talento per l’immagine filmica e per la versatilità di Soderbergh, un artista dell’audiovisivo in grado di spaziare tra generi, produzioni, realtà indipendenti o legate a major, pur rimanendo coerente con se stesso e la sua personale ricerca di uno sguardo autentico e personale all’interno della settima arte, anche se questo si presenta in un’opera comunque non pienamente riuscita.


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Classe 2001, cinefilo a tempo pieno. Se si aprissero le persone, ci troveremmo dei paesaggi; se si aprisse lui, ci troveremmo un cinema. Ogni febbraio vorrebbe trasferirsi a Berlino, ogni maggio a Cannes, ogni settembre a Venezia; il resto dell'anno lo passa tra un film di Akerman, uno di Campion e uno di Wiseman.

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