Nella cornice di un festival come la Mostra del Cinema di Venezia vengono presentati giornalmente circa una decina di film al giorno, alcuni molto grandi, altri più piccoli che purtroppo finiscono per passare in sordina. Tra questi ultimi rientra sicuramente Secret of a Mountain Serpent, opera seconda della regista indiana Nidhi Saxena finanziata attraverso il progetto Biennale College Cinema – iniziativa della Biennale di Venezia che promuove nuovi talenti per il cinema offrendo loro di operare a contatto di maestri per la realizzazione di lungometraggi a micro budget.

Credit: Stephanie Cornfield
Attraverso una regia che privilegia il campo lungo e i tempi dilatati, Saxena ricostruisce una storia di attesa e di desiderio in tempo di guerra, mettendo in risalto la prospettiva inedita delle donne in questo periodo oscuro della storia umana. NPC ha avuto modo di intervistare l’autrice del film, parlando di girare un film in India, dell’esperienza della Biennale College e di creatività femminile.
Secret of a Mountain Serpent, delle donne in guerra
Ambientato in una remota cittadina himalayana durante la guerra di Kargil, Secret of a Mountain Serpent racconta l’intima storia di Barkha, un’insegnante il cui marito sta combattendo sul confine. In un luogo dove la maggior parte degli uomini è assente e i giorni rimbombano di silenzio, Barkha si ritrova attratta da Manik Guho, un misterioso forestiero che sconvolge il fragile equilibrio tra attesa, moderazione e mito. Mentre la sua presenza risveglia desideri a lungo sepolti – in Barkha e nelle altre donne del villaggio – prende vita una tradizione locale di cui si mormorava: un serpente che vive nel fiume proibito, ancora in attesa, dopo mille anni, di una promessa d’amore non mantenuta.
Questa è un’esplorazione poetica del desiderio e della libertà, dove mito e memoria si confondono, invitando donne e uomini a un viaggio evocativo e profondamente sensuale attraverso l’amore, il desiderio e la trasformazione. Secret of a Mountain Serpent costruisce infatti una narrazione inedita, soprattutto per il panorama del cinema indiano (tendenzialmente molto muscolare e virile), di quotidianità, di solitudine e di tedio dell’esperienza femminile all’interno del contesto bellico. Ribaltando quelli che sono i codici del cinema di guerra, Saxena restituisce un’opera quieta, statica, che procede non per grandi eventi epici o battaglie sanguinarie, ma per suggestioni poetiche e liriche.

Quella di Secret of a Mountain Serpent è sicuramente una proposta e un’idea di cinema smaccatamente poco popolare – la stessa autrice nell’intervista qui di seguito ha indicato come ispirazioni il cinema di Fellini e di Tarkovskij -, ma al tempo stesso è un approccio al cinema molto coraggioso e in grado di regalare sensazioni inedite a chi si concede al film, ai suoi tempi e al suo fiume di immagini che sgorga come un rusciello di montagna. Secret of a Mountain Serpent, pur nel suo ermetismo voluto e ricercato, è un’esperienza cinematografica di un certo rilievo tra quelle vissute all’interno della Mostra del Cinema di Venezia 2025.
Intervista a Nidhi Saxena, regista di Secret of a Mountain Serpent
NPC – Com’è nato il film? A cosa ti sei ispirata – a una sensazione, un’immagine?
Nidhi Saxena (NS) – Vivevo nelle montagne dell’India, in un villaggio dell’Himalaya, e la maggior parte dei giovani uomini migravano verso le città dell’Himalaya per entrare nell’esercito. Migravano per cercare lavoro, e la maggior parte di loro entrava nell’esercito perché c’erano poche altre opzioni lavorative. In paese si vedevano gli uomini andare via e le donne rimanere: è la norma, in India. Così vedevo tante mogli sole attendere i loro mariti, desiderare i loro mariti. E questi rientravano una volta l’anno. Mi sono sempre chiesta: dovresti sacrificare te stessa per qualcuno che è assente?
Vivevo in questa città delll’Himalaya molto scenica, lo era già di suo. La mia ispirazione arriva dall’aver vissuto fino a dieci anni fa in questo villaggio. Questa cittadina vedeva molti cadaveri rientrare dalla guerra ogni giorno. E quindi vedeva molte vedove di guerra; e loro erano vedove. Nessuno le vedeva come donne: le vedevano tutti come mogli dei soldati, e basta. Nesssuno avrebbe chiesto loro se provassero desiderio, se avessero un qualche desiderio – emotivo, fisico. Dunque l’ispirazione viene da quelle donne, molte donne che ho incontrato quando ancora vivevo lì in India.

(Credits Andrea Avezzù, La Biennale di Venezia – Foto ASAC)
NPC – Anche se il film è ambientato nel passato, negli anni Novanta, sembra molto contemporaneo…
NS – Tristemente.
NPC – Tristemente, certo. Sembra contemporaneo nel modo in cui parla di donne, del desiderio femminile e del loro essere inascoltate in tempo di guerra. Avevi pensato di realizzare un film così contemporaneo?
NS – In realtà l’ho ambientato negli anni Novanta quando l’India stava vivendo la guerra di Kargil, e ho voluto ambientarlo a quel tempo. Ma purtroppo, quando stavo realizzando il film, è scoppiata un’altra guerra, molto simile a quella; è molto triste che questi tempi oscuri non passino. Voglio dire, stanno tornando ancora e ancora, e la situazione non è cambiata neanche dopo trenta, quarant’anni: è esattamente la stessa. E a volte ho la sensazione che il mio paese stia andando indietro nel tempo addirittura. A volte sento che non stia progredendo intellettualmente, che qualcuno dovrebbe dire di no alla guerra. Ma, purtroppo, è tornata.
Tutti la vogliono. Penso sia una cosa molto mascolina: volere la guerra è una cosa molto mascolina poiché tutti gli uomini pensano alla guerra come qualcosa di eroico. Ma nessuno osa guardare la guerra attraverso gli occhi di una donna. Quando guardi la guerra dalla prospettiva di una donna rimasta a casa sembra diversa: non è qualcosa di eroico, ma di solitario, di buio e di triste. Non succede nulla. Non ci sono bombe o pistole. C’è solo noia e solitudine, quell’assenza di amore e di emozione.
L’esperienza della Biennale College e le ispirazioni di Secret of a Mountain Serpent
NPC – Parlando della produzione del film, questo progetto è stato finanziato attraverso il programma Biennale College Cinema. Volevo chiederti come sei entrata in questo progetto. Qual è il processo per entrare? E come ti sei trovata? Cosa ne pensi del programma in generale?
NS – Ho sempre saputo che questo film non sarebbe mai stato finanziato dall’industria cinematografica indiana. Prima di tutto, è un film incentrato sulle donne – non ci sono uomini. E nell’industria indiana, tutti ai vertici sono uomini. Quindi da un lato, sapevo che non avrebbero finanziato un film così, così anti-bellico, che non mostra neanche la guerra in scena! Dall’altro il mio linguaggio filmico è molto, molto poetico. È più vicino alla logica della poesia, non a quella della prosa. Dunque sarebbe stato un film difficile, non sempre accessibile a tutti.
E io voglio fare film così perché sono un’ammiratrice di Fellini, di Tarkovskij, e ho sempre pensato che l’arte deve essere così. Non deve imboccare il proprio pubblico, dovrebbe dargli la libertà di percepire ciò che vogliono percepire. Dunque questo film è esigente sia nel tema, sia nel linguaggio cinematografico: sarebbe stata dura. E dunque ho fatto domanda per il programma, ed è stato favoloso!
Il programma è splendido. Tutte le persone coinvolte lo sono. Abbiamo avuto supporto per la sceneggiatura e per la regia, per il film design, per la produzione, per tutto. E ci hanno seguito, ma non ci comandavano. Non ci dicevano “fa’ questo”, “fa’ quello”. Abbiamo avuto dibattiti su questa o quella scena, e sul linguaggio e su tutto. Ma mi facevano sempre domande e mi hanno supportata per farmi avvicinare sempre di più al mio film. Logicamente, cercavamo di trovare le risposte riguardo a cosa fare e cosa non fare. Dunque è stata una grande opportunità.

(Credits Andrea Avezzù, La Biennale di Venezia – Foto ASAC)
Voglio dire, un film come questo in India sarebbe stato impossibile da realizzare. E, voglio dire che per il mio primo film [Sad Letters of an Imaginary Woman, ndr] ho avuto un finanziamento dalla Corea, e per il secondo ho ricevuto questo splendido finanziamento. Penso che tutti questi programmi dovrebbero andare a quei filmmaker che vogliono sperimentare con il linguaggio filmico e che stanno portando una nuova voce nel mondo del cinema. E li stanno supportando.
NPC – Hai già accennato dei tuoi film e del tuo approccio poetico al cinema. Hai citato Fellini e Tarkovskij. Ti volevo chiedere delle influenze sui tuoi film, perché vedendolo mi son venute in mente anche altre grandi registe come…
NS – Agnes Varda!
NPC – Varda, esatto! Maya Deren, ma anche Alice Rohrwacher, non so se la conosci. Ho anche percepito una grande influenza dello slow cinema [stile cinematografico caratterizzato da un approccio minimalista, osservazionale, con poca o assente narratività che fa largo uso di piani sequenza e inquadrature particolarmente lunghe dal ritmo disteso, ndr]. Non so se queste erano delle reference che avevi in mente…
NS – Sono una cinefila, quindi ovviamente amo Varda. La amo per molte ragioni. Varda era in quel momento della storia in cui c’era un movimento di flaneur. Le donne tendevano ad andare solo dove c’era qualcosa di importante. Non era concesso vagare senza uno scopo preciso. [Al tempo stesso] c’era questo movimento, credo fossero i flaneurs. Quando le donne hanno cominciato a camminare senza meta, Varda ha realizzato un film su quello [Senza Tetto Né Legge, ndr]. Quindi sì, Varda è una mia influenza. E non solo cinematograficamente, ma anche come donna. Cito sempre Varda: come diceva, volevo essere una femminista felice, ma non ce la faccio.
Alice è una regista che sperimenta molto col realismo magico. Ma non so, ci rivedo molto di Maya Deren. Sono colpita da come montava. È troppo coraggiosa; io non lo sono così tanto. Penso di aver bisogno di tempo per essere così coraggiosa. Maya Deren è troppo coraggiosa. A volte penso che loro siano i miei veri antenati… mi sento così connessa a loro. Quindi forse c’è un’influenza da parte loro. Sono molto felice del fatto che le mie influenze vengano dal giusto posto politico e sociale.
Come costruire un’opera poetica e lirica
NPC – Tornando al film, hai accennato al fatto che Secret of a Mountain Serpent sia molto poetico nella struttura. A tal proposito, la narrazione del film è piena di simboli che portano avanti la pellicola. Ti volevo dunque chiedere come si legano questi simboli alla narrazione del film, alle sue immagini e alle cose così personali che vuoi esplorare con esse.
NS – Vengo da un passato nelle belle arti: realizzavo dipinti e sculture. Penso che sia molto facile per me. Guarda, vengo da una società in cui alle donne non è concesso di dire le cose schiettamente. Vengo da un piccolo villaggio indiano, non ci era permesso di parlare in modo diretto. Dunque nella nostra cultura ci sono canzoni di donne che sono molto allusive, non parlano in modo schietto.
Dunque è molto facile per me cercare le metafore: ho utilizzato il fiume per parlare di desiderio, e ho pensato: okay, il desiderio è qualcosa di rischioso da seguire. E anche i fiumi lo sono. Il desiderio muta, e anche i fiumi. Dunque sì, ho utilizzato il fuoco per parlare di desiderio, il fiume per parlare di desiderio.

E le scarpe, ovviamente. Nel mio film, ci sono scarpe i cui piedi tornano a casa. Dunque ho pensato, in India alle donne non è concesso di andare, di lasciare casa e di vagare senza meta. Ma quando sono fuori, anche allora, una pressione sociale e morale le segue ovunque vadano, [segue] persino me che sono qui ora; non riesco a rompere le norme sociali e morali così facilmente.
E quindi pensavo a come mostrare questa condizione per cui vi sono norme e pressioni morali che mi seguono anche quando cammino per strada, fuori da casa mia. Dunque ho trovato quelle scarpe; esse permettono alle donne di uscire, ma allo stesso tempo dicono loro di rientrare a casa. Queste sono una casa: è una sorveglianza continua.
NPC – Vorrei parlare di come hai costruito il film, del tuo approccio formalista alla pellicola. Nello specifico, ti volevo chiedere del modo in cui la macchina da presa si muove: ha una specifica personalità nel modo in cui segue i personaggi, ma allo stesso tempo presenta un movimento molto ritmico nell’andare avanti e indietro, nell’andare verso l’alto e il basso.
NS – Sì, si muove troppo!
NPC – Ma no! Però ha un approccio molto ritmico, molto simbolico. E volevo sapere come hai approcciato il lavoro con la macchina da presa.
NS – Il mio cameraman è una persona splendida, Vikas Urs. Il suo lavoro era molto incentrato sulla visione di personaggi a distanza, in long takes. Ma io gli ho detto: guarda, Vikas, tu hai sempre lavorato con registi uomini, ma io sono una donna, e sono troppo emotiva nei confronti dei miei personaggi. Dunque vorrei che tu ti avvicinassi a loro, e che ti muovessi con loro. Voglio che tu li segua; non voglio che tu stia lontano da loro e li veda a distanza.
E questa è stata la nostra prima chiacchierata! E sì, ho paura di tagliare. Non mi piace tagliare. Per questo alcune mie inquadrature durano otto, nove minuti, e non penso che siano troppo lunghe. Posso farle anche di quattordici, quindici minuti, e non penso siano tante, perché penso che per percepire qualcosa, devi guardare per bene ad una cosa.
Come disse Buddha, devi guardare in un punto per un tempo più lungo, e allora inizierà a rivelarsi a te. E penso sia una cosa splendida. Dunque, se guardi una foglia o l’acqua, o un fiume o il cielo, qualsiasi cosa, ti si rivelerà pian piano. Ti si manifesterà il suo significato.
NPC – Ed è anche questo che si richiama allo slow cinema, con i suoi long takes.
NS – Certo, lo adoro! Ma sono troppo lunghi?
NPC – No, no. Sono del ritmo perfetto, definiscono una specifica sensazione che ti attrae nel film, che permette allo spettatore di entrare nel film.
NS – Che emozioni hai sentito vedendo il film?

(Credits A. Avezzù, La Biennale di Venezia – Foto ASAC)
NPC – Prima di tutto una forma di empatia verso Barkha, la protagonista. Ma al tempo stesso, ho sentito il tempo scorrere sulla mia pelle, allo stesso modo in cui le donne percepiscono il tempo attraverso il desiderio e come esso cresca col tempo. Questa è la specifica emozione che ho sentito, oltre alla frustrazione rispetto all’incapacità della protagonista di concretizzare il suo desiderio verso lo straniero, l’uomo che arriva in città. Non so se era questo che avevi intenzione di trasmettere…
NS – Voglio dire… quando le persone vanno in spiaggia a vedere un tramonto, persone diverse percepiscono il tramonto attraverso il loro mondo interiore. Se sono felice, percepirò il tramonto come molto luminoso e sarà felice; dunque, preferisco non dire le cose chiaramente, non dare una direzione precisa. Voglio dire, è libero. Qualunque cosa tu senta, è l’emozione corretta per il film, e non voglio [imporre una lettura].
NPC – Un approccio molto lynchiano, nel modo in cui lui non spiegava nulla.
NS – Sì, ma in Lynch sentiamo così tanto!
NPC – Anche nel tuo film lo facciamo.
NS – Grazie.
NPC – Per sfortuna, ho dovuto vedere il film sul mio computer, per poter fare quest’intervista. Non ce l’avrei fatta ad andare all’anticipata stampa.
NS – Anche perché è adesso [nel momento in cui stiamo parlando, ndr]!
NPC – Esattamente. Come ti senti a riguardo, al fatto che le persone lo stiano vedendo?
NS – Ovviamenrte sono un po’ nervosa, un po’ ansiosa riguardo le recensioni e tutto il resto. Ma ho sempre saputo di voler fare film come questo, poco accessibili, perchè ho sempre amato quei tipo di film che sembrano un po’ inaccessibili. Per esempio, amo Fellini e 8 1⁄2: lo guardo in continuazione da dieci anni e non riesco ancora a dire di averlo capito completamente. E invece no, è ancora tanto da approcciare.
E adoro La Dolce Vita, e penso che vada bene lasciare qualcosa di misterioso da risolvere nel corso del tempo. L’approccio metaforico sicuramente aiuta in questo. Forse alcune persone non le troveranno immediate, ma crea una connessione emotiva. E non tutto i film sono per tutti. È okay, lo possiamo accettare.
Un sound design che fa la differenza
NPC – Tornando all’approccio formalista, un elemento che ho molto amato nel film è il sound design, soprattutto nel modo in cui prendi piccole azioni e, attraverso il suono, le rendi grandi, epiche. Ti volevo dunque chiedere il tuo approccio con questo aspetto del film.
NS – Io volevo che qualcuno mi chiedesse del sound design perché non crederesti al fatto che il mio film è fatto al 40% dall’aspetto visivo e per il 60% dal suono. Senza il suono, non sarebbe così accessibile, perché vedo il sonoro come una narrazione parallela. Di solito tutto quello che vediamo accadere sullo schermo, lo sentiamo anche: se adesso prendo in mano un bicchiere, vediamo il vetro e sentiremo il mio parlare e tutto il resto. Ma io credo che questo non dovrebbe essere il sound design, dovrebbe essere qualcos’altro, qualcosa che non siamo in grado di vedere.
E penso che sia in grado di scuoterti emotivamente, è un qualcosa di emotivo. Per questo cerco di rendere il sonoro una narrazione parallela. Noi immaginiamo le cose emotivamente. Che cos’è dunque quest’assenza? Cosa desideri? E da queste domande partiamo con la costruzione del sonoro.

Per esempio, c’è una scena in cui Sudhir, il matito di Barkha, vagabonda in giro, gira attorno ad un albero e vedere delle persone che cercano di trovare un serpente. La produzione mi ha detto: è una scena di sommossa, le persone stanno cercando di uccidere il serpente: abbiamo bisogno di una folla. Io ho risposto di no, che non ne abbiamo bisogno. Mi servono solo due persone.
E tutti son venuti da me a chiedermi spiegazioni, visto che era una scena che prevedeva una folla. Sei tu ad aver scritto che le persone cercano di trovare e uccidere il serpente. Come possono essere due persone, se poi mettono a fuoco il posto circostante? E io ho insistito che volessi solo due persone.
Dunque, abbiamo costruito l’intera scena, della durata di cinque o sei minuti. L’intera scena è costruita attraverso il sonoro, perché ho pensato che, durante le rivolte, non si vedono di solito le persone. In genere ci si nasconde nelle proprie case e si ascoltano solo le voci. E sono proprio le voci e i suoi a restituirti una maggiore emozione, ti fa venire i brividi.
Oltretutto, sento che oggi siamo così riempiti, così bombardati da immagini, da elementi visivi. Oggi, quindi, nel cinema il suono è l’unica cosa che fa davvero la differenza, visto che le immagini sono ovunque. Voglio dire, su Instagram siamo riempiti di reel da trenta secondi, quindi…
Nuovi progetti all’orizzonte
NPC – Quali sono i tuoi progetti futuri? Hai qualcosa in mente?
NS – Ho due progetti futuri, ma non so se quale inizierà per primo. Uno si richiama a Dostoevskij, è influenzato da Delitto e Castigo. Vorrei mettere alla prova le leggi, e il motivo per cui abbiamo il diritto penale. È una norma riformativa, o cerca solo di punire le persone? In questo momento in India tutti parlano della polizia, del potere, dicendo che la polizia deve subire così tanto. Ma io voglio parlare dei prigionieri, perché le prigiorni indiane sono piene di persone.
Dunque voglio realizzare un film di fiction, si chiama Azad Nagar, e lo voglio fare in questo momento. È il momento giusto per le persone di pensare alle politiche di potere, e dobbiamo pensare, se vogliamo davvero essere un paese sviluppato, a come vogliamo approcciare il problema del crimine. Che cos’è il crimine? Chi c’è nelle nostre prigioni? Di cosa si parla quando parliamo di sistema legale? Sta collassando?
L’altro progetto riguarda una ragazza di città alla ricerca del suo partner, ma fallisce miseramente. Questo perché secondo me le donne in India devono imparare e crescere, mentre gli uomini possono non farlo. Dunque lei decide di intraprendere un viaggio in bicicletta con due uomini himalayani verso l’Himalaya. Ma qello che voglio fare davvero per primo è Azad Nagar. Ma non so, è un grande progetto, quindi non so quando succederà.
NPC – Li realizzerai in India o no?
NS – Non so da dove verranno i soldi, visto che si tratta di temi molto politici. Voglio dire, se vuoi dire qualcosa riguardo le prigioni, la polizia, il sistema penale e i prigionieri, stai facendo un film molto molto politico. Ma nel modo in cui ho scritto la sceneggiatura c’è anche una storia d’amore, c’è molto amore. È un film pieno anche di emozioni.
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