C’è un quartiere a Manhattan, New York, fra la 34ª e la 59ª strada, e tra l’8ª Avenue e il fiume Hudson, che si chiama Hell’s Kitchen, letteralmente “la cucina dell’inferno”. Anche se oggi è un vivace quartiere multietnico frequentato soprattutto da attori e aspiranti tali e col tempo ha subito un significativo processo di gentrificazione, un tempo era un quartiere malfamato: si dice infatti che il nome derivi da un vecchio palazzo malfamato e dall’area ad esso circostante definita la zona più degradata e sporca della città.
Come ci insegnano The Bear o i vari reality show di cucina come l’omonimo Hell’s Kitchen o Cucine da incubo, la cucina in realtà sa essere un luogo veramente infernale, caotico, dove le persone sono costantemente sotto pressione e spesso incapaci di gestire una frenesia che gli entra dentro al punto da scombussolare persino le proprie vite. Un’altra “cucina infernale” la racconta Alonso Ruizpalacios nel suo nuovo film Aragoste a Manhattan, uscito recentemente nelle sale italiane.
La trama di Aragoste a Manhattan
Liberamente ispirato a The Kitchen del drammaturgo inglese Arnold Wesker, Aragoste a Manhattan è ambientato a Times Square all’interno della cucina del The Grill, un ristorante gestito da Rashid, imprenditore arabo-americano che si presenta agli occhi dei suoi dipendenti come colui che è riuscito a realizzare il famigerato sogno americano. Il film si apre con Estela, ragazza messicana in cerca di Pedro, suo amico di infanzia e cuoco presso il The Grill.

Dopo un colloquio con Luis, risorse umane del ristorante, la ragazza entra nella cucina sotterranea del ristorante, piena principalmente di immigrati di lingua spagnola o di origine araba entrati illegalmente nel paese e a cui Rashid promette sempre di metterli in regola. Fra questi lo stesso Pedro, attorno a cui ruota la storia raccontata dal regista. Pedro ha una relazione con una delle cameriere del ristorante, Julia, incinta del protagonista, ma convinta in realtà di voler abortire.
Abbindolato dal sogno di diventare immigrato regolare e di costruirsi una famiglia, la vita di Pedro si complica, però, quando dalle casse del ristorante scompaiono circa ottocento dollari. Tutte le colpe cominciano a cadere sul protagonista, e questo presunto furto lo porta a peggiorare il caos della cucina e molto probabilmente lo condurranno verso la consapevolezza che il suo, in realtà, non è un sogno, bensì un incubo americano.
Aragoste a Manhattan, un «The Bear sotto steroidi»
Come menzionato poco fa, Aragoste a Manhattan è liberamente ispirato a The Kitchen di Arnold Wesker. Quest’ultimo, in realtà, è un dramma teatrale corale che si focalizza su più personaggi – immigrati provenienti dall’Europa continentale – ed è ambientato nella cucina di un café nell’arco di una giornata. A differenza di Wesker, Ruizpalacios si focalizza principalmente su un personaggio – Pedro, che forse si ispira al Peter di Wesker, anche se quest’ultimo è un immigrato tedesco – e ambienta la storia dilatando il tempo per aumentare ancora di più l’agonia di un sogno che in realtà si rivelerà essere un fallimento.

Non è un caso che Ruizpalacios si sia ispirato a Wesker: quest’ultimo è esponente del movimento culturale kitchen sink drama, movimento di fine anni Cinquanta che con realismo ritraeva la classe operaia inglese – i cui membri erano definiti angry young men – alle prese con le loro lotte contro le ingiustizie sociali. Il regista, dunque, traspone i drammi di questi angry young men ai giorni nostri, ai tempi del neoliberismo, dove non c’è spazio per sognare, ma soltanto per una fatica che non ripagherà mai.
Per capire ancora meglio questo Aragoste a Manhattan, c’è da tener presente che la rivista «Deadline» ha definito il film «The Bear sotto steroidi». Come la serie tv con protagonista Jeremy Allen White, Aragoste a Manhattan sa ben rappresentare il caos della cucina e la pressione a cui sono sottoposti i membri dello staff del The Grill arrivando addirittura a estremizzarlo a livello di sonoro, di fisicità e persino girando il film interamente in bianco e nero, a riprova del fatto che, a differenza di The Bear, qui non c’è spazio nemmeno per la compassione.
Aragoste a Manhattan, el amor de mi visa
In questo «The Bear sotto steroidi» che è Aragoste a Manhattan, il caos e l’incomunicabilità – dovuta principalmente alla prevalenza della lingua spagnola sulla scena – sono ancora più assordanti. A interpretare la controparte di Carmy Berzatto è Pedro. Perché controparte? Perché se Carmy – beghe esistenziali e autosabotatrici a parte – riesce a realizzare il sogno del fratello di realizzare il ristorante della vita – il The Bear, appunto –, Pedro d’altro canto non è detto che riesca a realizzare il proprio di sogno, che nel corso di Aragoste a Manhattan si rivelerà sempre più essere un’illusione.
Spie di questo inevitabile fallimento sono, per esempio, i litigi che spesso Pedro ha con i suoi colleghi. Essi, però, sono molto diversi da quelli che Carmy ha, per esempio, con Richie, che alla fine si risolvono grazie a un legame d’amicizia talmente forte al punto che i due si considerano persino “cugini”: sono infatti più violenti e spesso non si risolvono con la riappacificazione, ma lasciano aperte ferite profonde.
I litigi che saltano all’occhio sono soprattutto quelli con l’addetto alla griglia, un bianco americano molto probabilmente razzista con cui ha frequenti alterchi, e con la cameriera di origine dominicana, che Pedro tratta sempre con sufficienza. Fin dall’inizio, quindi, il protagonista inscena una guerra fra poveri che lo porterà sempre più a isolarsi.

Questo isolamento comunitario si nota anche nelle battute che gli altri sudamericani membri dello staff del The Grill fanno a Pedro in merito alla sua relazione con Julia, quando dicono che in realtà vuole stare con lei per ottenere il visto. Uno dei cuochi, infatti, reciterà in spagnolo la seguente battuta: «el amor de mi visa», un gioco di parole fra “vida” e “visa”, quest’ultima in inglese indica, appunto, il visto.
È proprio il legame con Julia che fomenta ancora di più il caos interiore di Pedro: esso si fa sempre più freddo e distaccato, in quanto – ed è l’unica anticipazione che si può dare ai fini dell’analisi di questo film – la ragazza non solo è intenzionata ad andare avanti con l’aborto, ma aveva già realizzato una famiglia precedentemente, e ciò sembra allontanare Pedro dall’idea di realizzarsi come immigrato perfettamente integrato in America.
Aragoste a Manhattan, o polli nel mare dentro la cucina del sogno americano fallito
Oltre a questi elementi, ci sono due scene fondamentali in Aragoste a Manhattan da tenere a mente nell’ottica dell’illusorietà del sogno americano. La prima è agli inizi del film dove Pedro racconta a Julia di come una volta le aragoste fossero considerate polli del mare, cibo povero per i pescatori, e come un giorno una persona ricca abbia deciso di definirle leccornie portandole a essere esibite come merce pregiata in tutto il mondo.
La seconda, invece, è il racconto del sogno di Nonzo, uno dei colleghi di Pedro, avvenuto durante una pausa sigaretta che il protagonista si concede assieme ad altri membri dello staff di The Grill, che parla di un immigrato italiano disabile che, ad un certo punto della sua vita in America, è stato portato via da una luce verde ed è poi riuscito a realizzare il sogno di diventare pizzaiolo. Alla fine del racconto, questo sogno viene però bollato come qualcosa di insensato, rovinando così tutto il romanticismo e l’illusione attorno ad esso.

La luce verde non è, però, un elemento sconosciuto. Chi conosce bene la letteratura, sa che la luce verde è anche quella che Jay Gatsby osserva in fondo alla baia nella tenuta di Daisy e che incarna un futuro idealizzato assieme alla donna e l’illusione di un sogno di successo. Questa luce verde inserita in un contesto di immigrati irregolari rappresentati su uno schermo prevalentemente bianco e nero rende ancora più forte e desolante la ricerca di speranza di Pedro, che come Gatsby e più di lui aspira a realizzare un’utopia impossibile.
Se come dice Raymond Carver i sogni sono ciò da cui ci svegliamo, allora il sogno di Nonzo è un’illusione che svela l’incubo dietro alla menzogna del sogno americano. Pedro alla fine è un pollo di mare la cui disperazione per cercare la luce verde è messa alla mercé di chiunque, sfruttata per sfruttarlo e portare avanti una logica del profitto alimentata grazie alle illusioni che nutrono disperati come lui in cerca di un futuro migliore che forse mai raggiungeranno.
Aragoste a Manhattan: da American Dream ad American Nightmare
Prendete la frenesia di The Bear e mettetela da parte, aggiungeteci un pizzico della cattiveria di Whiplash, un po’ della luce verde del Grande Gatsby e della spietatezza del neoliberismo e otterrete Aragoste a Manhattan di Alonso Ruizpalacios, un film che serve in tavola un menù a base di macerie del sogno americano raccontate con grande e dissacrante sincerità smascherando ogni falsa retorica sull’America come terra d’opportunità.
Attraverso l’attività di una cucina caotica e decadente, Aragoste a Manhattan mette in scena l’illusione di un uomo arrivato in America carico di speranze, ma presto diventato come tutti gli altri carne da macello di un sistema di sfruttamento che si alimenta creando false illusioni per controllare chi gli permette di reggersi in piedi. Aragoste a Manhattan è il racconto desolante di sogni che non esistono e di uomini e donne che per andare avanti accettano rassegnati il proprio destino di miseria.
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