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Cabinet Of Curiosities NPC Magazine

Cabinet of Curiosities di Del Toro è un brutto minestrone con una perla nascosta

La serie antologica di Guillermo del Toro su Netflix è poco ispirata e non sa appassionare

6 minuti di lettura

La ricetta per il disastro può essere composta anche dagli ingredienti più allettanti. Lo dimostra Guillermo del Toro’s Cabinet of Curiosities, ambiziosa serie antologica realizzata dal regista messicano in collaborazione con figure di spicco del cinema horror e fantastico contemporaneo: in ordine, Guillermo Navarro, già direttore della fotografia per del Toro e regista televisivo (Hannibal, Narcos), Vincenzo Natali (Cube), David Prior (The Empty Man), Ana Lily Amirpour (Mona Lisa and the Blood Moon), Keith Thomas (Firestarter), Catherine Hardwicke (Twilight), Panos Cosmatos (Mandy) e Jennifer Kent (The Babadook).

Fatta eccezione per il settimo, tutti gli episodi di Cabinet of Curiosities, rilasciati dal 25 al 28 ottobre su Netflix, si basano su racconti brevi, prendendo ispirazione dallo stesso Guillermo del Toro, Henry Kuttner, Michael Shea, Emily Carroll e H. P. Lovecraft. Tra gli sceneggiatori, anche David S. Goyer (trilogia de Il Cavaliere Oscuro) e Regina Corrado (Sons of Anarchy); del cast, invece, ricordiamo in particolare Rupert Grint, Sofia Boutella, Eric André ed Essie Davis.

Cabinet of Curiosities è un esperimento freddo, noioso e impersonale

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Biglietto da visita di una stanza in cui difficilmente si vorrebbe entrare ancora è Lotto 36: nonostante sia l’episodio di minor durata, gira a vuoto per tre quarti prima di venire al sodo. È il presagio nefasto della debolezza narrativa di Cabinet of Curiosities, dal quale si salvano solo I ratti del cimitero, che espande dignitosamente il racconto di riferimento con un twist lovecraftiano, e Il brusio, di cui parleremo in seguito. Anche le proposte più interessanti, come La visita, soffrono di un build up ingiustificatamente lungo e avrebbero funzionato meglio con un minutaggio dimezzato. Ripetere la formula breve di Love, Death + Robots sarebbe stato, forse, più consono.

Nemmeno al suo meglio Cabinet of Curiosities propone formule che non siano già state ampiamente collaudate, e l’assoluta piattezza stilistica non fa che accentuare tale mancanza. Pur coinvolgendo, infatti, ben otto registi differenti, tutti navigati e con un taglio riconoscibile che avrebbe potuto trovare terreno fertile in un format del genere, il progetto è di una mediocrità inspiegabile. Da questo punto di vista riescono a emergere solo L’apparenza, unico caso nei primi sei (sei!) episodi in cui la regia salva parzialmente una storia piuttosto ripetitiva, La visita, senza la cui fotografia e colonna sonora ci si annoierebbe il doppio e ancora Il brusio.

La fallimentare trasposizione di Lovecraft

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Chiunque abbia mai letto Lovecraft è ben consapevole di quanto sia difficile tentare di trasporre una sua opera: la prospettiva cosmica dell’autore vuole che l’orrore sia nell’ignoto e nell’inimmaginabile e i suoi protagonisti hanno a che fare con mondi, creature, dei, materiali e geometrie indecifrabili, inspiegabili e irriproducibili. Non è un caso che non esistano molti film o serie che ambiscono a portare i suoi racconti direttamente sullo schermo.

In Cabinet of Curiosities si tenta l’impresa nei due episodi centrali: se Il modello di Pickman riconferma la lunghezza e l’anonimato dei capitoli precedenti ai danni della potenziale carica inquietante, I sogni nella casa stregata è una truffa imperdonabile che fa del nome di Lovecraft uno specchietto per le allodole. Non solo la trama e le atmosfere quasi young adult non hanno praticamente nulla a che vedere col materiale di partenza, ma si vanno a tradire i presupposti dello scrittore statunitense con un’esposizione nauseante, ridicola nel suo tentativo di accaparrarsi il più ampio pubblico possibile spiegando anche le cose più ovvie.

Non ci si riferisce a chissà quali tecnicismi in questa critica ma alla disonestà, verso Lovecraft e il pubblico stesso, dettata dal terrore di proporre qualcosa che sia un minimo più ambigua e intraprendente. Se si reputa chi guarda così incapace di apprezzare opere che non lo prendano per mano (o in braccio, dovremmo dire), che non ci si lanci allora in certe imprese, perché i risultati finiscono per essere inqualificabili.

Il brusio, la perla di Cabinet of Curiosities

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Quando ogni speranza sembra persa e anche Cosmatos finisce per tentennare, arriva finalmente Il brusio. Scritto e diretto da Jennifer Kent e basato su un racconto di del Toro, l’episodio è sorretto dalle solide interpretazioni di Essie Davis e Andrew Lincoln e fa scuola a tutti quelli che lo precedono in termini di scrittura, regia e fotografia. Pur non brillando per originalità, Il brusio ha dalla sua qualcosa che fino a quel momento mancava: l’anima. È coinvolgente e sa emozionare, si prende i suoi tempi senza per questo annoiare e ricorda cosa voglia dire appassionarsi a una storia dopo aver assistito a dei pasticci freddi e impersonali.

La chiave di Cabinet of Curiosities, insomma, sta paradossalmente nel capitolo meno horror; un errore felice nel mare di scialbore che lo circonda. E proprio come la protagonista nel finale, fa tirare un sospiro di sollievo allo spettatore, perché dà un senso a un’esperienza di visione altrimenti inutile.


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Classe 1999, pugliese fuorisede a Bologna per studiare al DAMS. Cose che amo: l’estetica neon di Refn, la discografia di Britney Spears e i dipinti di Munch. Cose che odio: il fatto che ci siano ancora persone nel mondo che non hanno visto Mean Girls.

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