Fra i film Fuori Concorso al Festival di Venezia c’è Dead Man’s Wire, ritorno sugli schermi di Gus van Sant dopo ben sette anni di silenzio da Don’t worry, He won’t get far on foot (2018). Nel cast Bill Skarsgård, Al Pacino, Colman Domingo e Dacre Montgomery, fresco di Stranger Things. Una commedia nera, il film di van Sant racconta un vero episodio di cronaca iniziato l’8 febbraio 1977 e conclusosi qualche giorno dopo: Tony Kiritsis è disperato per essere stato raggirato illegalmente dalla Meridian Mortgage Company, un grosso conglomerato bancario, e rapisce il figlio del CEO applicandogli un “dead man’s wire”, un fucile collegato tramite filo al collo dell’uomo e al grilletto dell’arma.
Vediamo di capire perché il film avrebbe meritato di essere in concorso e come continui a dimostrare che Gus van Sant è un autore ancora freschissimo, con molte cose da dire nonostante siano passati quarant’anni da Mala Noche.
Dead Man’s Wire, tragedia moderna di un uomo ridicolo
Credits Jacopo Salvi, La Biennale di Venezia – Foto ASAC
Tony Kiritsis (Skarsgård) è un vero e proprio personaggio: dopo aver sequestrato il figlio del CEO chiede alle autorità 5 milioni di dollari e delle sentite scuse da parte del magnate -interpretato da un Al Pacino in stato di grazia-; sviluppa in breve tempo un rapporto quasi di simpatia con Richard (Montgomery), il suo prigioniero e approfitta della situazione per richiedere come negoziatore il suo speaker radiofonico preferito, Fred Heckman (Domingo). Si gode lo stallo nel quale ha incastrato le autorità chiedendo di diffondere il suo manifesto anticapitalista in radio ed in seguito di poter parlare alla nazione in una diretta televisiva, forte di aver suscitato la simpatia delle masse.
Dead Man’s Wire è innanzitutto una commedia: van Sant scrive una sceneggiatura dai tempi comici perfetti, interpretata con grande maestria da tutti i coinvolti -Skarsgård in particolare dimostra nuovamente di essere un attore camaleontico- e che riesca a convincere il pubblico della simpatia e della buona fede del suo folle protagonista. Basti pensare che quando dopo i titoli di coda il regista inserisce alcuni filmati del reale Kiritsis la sala del Lido veneziano è esplosa in uno scroscio di applausi e risate: una dimostrazione del potere persuasivo delle immagini, sia cinematografiche che televisive.
Credits Aleksander Kalka, La Biennale di Venezia – Foto ASAC
Non bisogna certo sottovalutare l’assurdità dei fatti stessi nel capire come mai Dead Man’s Wire faccia tanto ridere: l’incompetenza delle autorità nel gestire il caso fu decisamente comica anche in diretta, come comico fu l’atteggiamento di Kritsis attraverso tutto il sequestro. Assurde le richieste, assurda la mediazione del dj ed assurdo il coinvolgimento del fratello di Tony, che lo convince di poter ricevere totale immunità dopo aver liberato l’ostaggio.
Altra nota di merito, le musiche, sia originali che non: da hit degli anni ’70 ad una colonna sonora originale di Danny Eflman, riescono a creare un perfetto mix di fra commedia e thriller di tensione. Perché va detto, oltre a far ridere Dead Man’s Wire dialoga apertamente anche con la filmografia più seria di Gus van Sant: se da un lato richiama l’atmosfera cinicamente scanzonata -e ossessionata dalla televisione- di Da morire (1995), dall’altro riflette con finezza sulla marginalizzazione degli individui più fragili tanto diffusa nella società statunitense come era per Elephant (2003).
Gli eroi del prime time
Dead Man’s Wire si occupa proprio di questo: non tanto la cronaca dei fatti, piuttosto il loro impatto mediatico. Van Sant gioca con il medium televisivo, alternando immagini estremamente curate nel ricreare il look cinematografico degli anni ’70 a sperimentazioni che emulino la messa in onda televisiva. La cura visiva nel replicare l’aspetto di quelle immagini viene riconfermata dal fatto che sparpagliate nel film vi siano reali immagini dell’epoca che si mimetizzano in mezzo a quelle girate dal regista.
Credits Aleksander Kalka, La Biennale di Venezia – Foto ASAC
Tutto ciò è anche strettamente legato al senso più profondo di Dead Man’s Wire: van Sant è principalmente interessato a come la televisione abbia aiutato l’America a creare il proprio immaginario culturale. Continui sono i parallelismi fra la vicenda del povero Kritsis e le gesta dei cowboys in televisione: proprio prima di tenere il suo discorso in diretta nazionale Tony lamenta che sull’altro canale stia andando in onda un omaggio a John Wayne e che lui “non possa competere con John Wayne”. La tesi centrale del film è che nella nuova mitologia statunitense, quella nostra contemporanea, i cowboys siano stati sostituiti dai rapitori di CEO.
Non è un caso che la vicenda di Luigi Mangione abbia ammaliato il pubblico al punto da renderlo un moderno Robin Hood: questo crescente risentimento nei confronti della minoranza degli ultra ricchi era già stato intercettato da Joker (2019) ed è riconfermato dalla presenza in questo festival del film di Park Chan-wook No other choice. I nuovi eroi americani dominano il prime time e quelli vecchi vanno ricontestualizzati: non è casuale l’inclusione di Al Pacino come vecchio CEO incollato al suo trono, sboccato e ridicolmente attaccato al denaro, al punto da mettere a rischio la vita del figlio.
Se anche Tony Montana è più simile a Jabba the Hut che ad altro, e John Wayne riceve l’Oscar alla carriera e viene quindi “domato”, l’unica speranza dell’America per continuare a sognare un futuro migliore sono i folli ed i disperati senza nulla da perdere.
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