Il mondo del cinema è in fermento per l’imminente inizio della 78esima edizione della Mostra Internazionale D’Arte Cinematografica di Venezia, dall’1 all’11 settembre 2021. Con cinque film italiani in concorso, tra le firme di Paolo Sorrentino, Mario Martone, Damiano e Fabio D’Innocenzo e Michelangelo Frammartino spicca quella di Gabriele Mainetti. Il regista romano approda per la prima volta a Venezia con il suo secondo lungometraggio, Freaks Out. Una cornice di personaggi circensi sullo sfondo della Roma occupata dai nazisti del 1943. Una sfida, come l’ha definita lo stesso Mainetti, che possa essere “un racconto d’avventura, un romanzo di formazione e – non ultima – una riflessione sulla diversità”.
Sempre sotto l’egida della Goon Films, casa di produzione del regista, e accanto alla firma di Nicola Guaglianone in sceneggiatura, Mainetti ritrova la magia nell’ordinario, con quell’usuale sapore dolceamaro che corona la sua produzione. In bilico tra realtà e fantasia, tra sogni e disillusioni, Roma e le sue tenebre invocano un supereroe della cinepresa, in grado di guardare le crepe dell’ordinario da un punto di vista non convenzionale, come dimostra il suo capolavoro del 2015, Lo Chiamavano Jeeg Robot. Tra ladri buoni e malfattori di periferia, la realtà degli emarginati si lascia raccontare nella chiave di una fiaba dark. In attesa di Venezia, riscopriamo i punti cardine della sua carriera cinematografica.
Le Basette di Lupin III
È il 2008 quando Mainetti evoca l’immaginario manga di Lupin III per il suo cortometraggio Basette, disponibile in HD su Youtube. Valerio Mastrandrea indossa la giacca rossa del ladro gentiluomo, in una borgata romana dove il crimine è tanto invitante quanto distruttivo. Così Basette, ultimo di una famiglia di ladri del Quadraro, sogna il colpo decisivo e la gloria eterna. Affiancato a due criminali di bassa lega, da lui immaginati come Daisuke Jigen (Marco Giallini) e Goemon (Daniele Liotti), tenta il colpo all’ufficio postale, pronto a riabbracciare la sua Fujiko (Luisa Ranieri). A ostacolare i suoi piani irrompe però il rocambolesco Ispettore Zenigata (Flavio Insinna), in oltre 16 minuti di corto che ripercorre un episodio di Lupin III, contrapponendo la fantasia all’amara realtà.
Sin da subito Mainetti incastona in un piccolo gioiello filmico le caratteristiche fondanti del suo stile. Quella Roma tradotta in vie abbandonate e palazzoni di periferia, masticata in un dialetto marcato e culla di voci inascoltate. Sono i Freaks della metropoli, gli emarginati tanto amati dai primi racconti e romanzi di Niccolò Ammaniti. Una schiera di anime dimenticate che ritrova la sua dignità in un mondo immaginario, in questo caso quello della penna del mangaka Monkey Punch. Con una selezione al Festival di Locarno, Basette è l’apripista di un percorso creativo già ben definito.
Il ring di Tiger Boy
Ad un passo dagli Oscar si fa strada anche il cortometraggio Tiger Boy, datato 2012 ed embrione di quella dimensione tra supereroismo, innocenza infantile, abusi e violenza che scriverà le trame di Lo Chiamavano Jeeg Robot. In questo caso non abbiamo Hiroshi Shiba e il Ministro Amaso, ma Il Tigre, wrestler di periferia idolatrato dal piccolo Matteo. È lui ad ispirare la maschera che il bambino indossa ogni giorno a scuola, attorniato dai risolini dei compagni e dagli sguardi sospetti delle mamme. Anche la madre di Matteo, sola a crescere il piccolo, non può sopportare quell’oscurantismo d’identità, ma Tiger Boy hai suoi motivi. Perché la scuola, luogo di formazione e rifugio comunitario, non è un posto sicuro.
Nell’ufficio del preside si nasconde infatti un mostro, ma non di quelli che si nascondono sotto il letto. Lì c’è l’uomo nero, che si nutre dell’innocenza giocando sull’inconsapevolezza altrui. Matteo però ha la sua maschera e sembra che nulla possa scalfirlo con quella addosso. Finché non vede Il Tigre combattere sul ring e capisce che quella maschera non gli serve più. Ancora una volta il supereroe è l’uomo ordinario che diventa simbolo. Dove c’è dolore e violenza, ecco che dall’alto dei palazzi spunta l’antieroe, che osserva Roma e i suoi demoni con una rinnovata speranza. Proprio questo è il leitmotiv che ci conduce al lungometraggio.
Lo chiamavano Gabriele Mainetti
Il passaggio dal corto al film sancisce una presa di coscienza satura di consapevolezza artistica. Per Lo Chiamavano Jeeg Robot, disponibile su Sky On Demand e Netflix, Mainetti sceglie il supereroe urbano, lo affida alle sapienti mani di Claudio Santamaria, presente anche in Freaks Out, e lo contrappone alla follia sensazionale di Luca Marinelli, nelle vesti dello Zingaro. Ecco che il sistema manicheo della lotta tra bene e male trova la sua realizzazione in una realtà sfumata, chiaroscurale, contemporanea. L’eroe non è lindo e illibato, ma un ladruncolo invischiato con la mala che si nutre a Danette alla vaniglia mentre guarda film porno. Sembra quasi cogliere quel sapore solitario del Quattro Formaggi interpretato da Elio Germano in Come Dio Comanda di Gabriele Salvatores.
E se la solitudine è la chiave di volta per personaggi ai limiti della realtà, è anche vero che nessuno si salva da solo. Così la bravissima Ilenia Pastorelli accompagna Santamaria verso la consapevolezza eroica in una pellicola rivelazione del cinema italiano, che si conquista 7 David di Donatello e 2 Nastri D’Argento. Fulmini e saette per un film dal profondo trasporto umano, dove il dolore è tangibile, condiviso, carnale. Mainetti ci trasporta così in una dimensione onirica, ma brutalmente reale. I volti dei suoi personaggi, vivi in primo piano, trasudano un’esistenza disillusa, ma degna di essere raccontata.
“In questo mondo di eroi, nessuno vuole essere Robin” canta Cesare Cremonini e il tocco pop è l’indiscussa ciliegina sulla torta di uno stile dall’accattivante appeal visivo e dalla profondità magnetica. Mainetti è il nostro eroe dietro la cinepresa, o meglio l’antieroe e il narratore dei Freaks, la cui attesa a Venezia è febbricitante.
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