Gli oggetti ci possiedono. I desideri ci condizionano. I nostri difetti ci rendono vulnerabili o ci fanno riflettere per migliorarci giorno per giorno. I protagonisti di Holy Shoes – presentato in anteprima al Torino Film Festival 2023 e già cortometraggio – vivono in una Roma trafficata, suburbana e hanno un attaccamento morboso per le scarpe, mezzo che usano per ottenere i loro obiettivi. Le scarpe sono indice di uno status che può portare alla rovina e alla corruzione ragazzini di borgata e avidi influencer borghesi o che può risollevare le sorti di donne e ragazze in situazioni infelici e scomode.
Holy Shoes, esordio alla regia di Luigi di Capua, sceneggiatore e membro del trio romano The Pills, è una graffiante e ironica critica a una società materialista e desiderante che è proiettata verso una ricerca del futile e dell’effimero, innalzato quasi a divinità. Quell’effimero ha la forma di scarpe bianche da ginnastica, le monolitiche Typo 3, trattate come reliquie. Holy Shoes affonda nella realtà di cronaca, dal fenomeno delle baby gang all’incredibile numero di crimini compiuti negli USA per ottenere calzature costose.
Holy Shoes vive in un contrasto tra il dark e il comico, in un’atmosfera quasi neorealista che ricorda un Ladri di Biciclette più colorato e con più musica trap: le musiche in dissonanza sono una chicca del film, che vede lo scontro tra Taxi B e musica classica in un contesto senza tempo e nell’intreccio delle linee narrative.
Holy Shoes, l’assurdo e il tragico che convivono
La caduta o il successo dei protagonisti la fanno da padroni, come in uno Scarface romano e alternativo. Però, i personaggi maschili subiscono una sorte diversa da quelli femminili. I primi vengono segnati in modo negativi dagli eventi e spesso sono artefici dei loro stessi disastri. Al contrario, le donne – che pur sacrificano affetti e valori – danno una svolta positiva alle loro vite, esercitando spesso il potere della sorellanza in una collaborazione proficua. Notevoli le interpretazioni degli attori, che hanno interiorizzato – grazie all’ascolto attivo e attento del regista – le forze e le vulnerabilità dei protagonisti.
Carla Signoris, Isabella Briganti e Simone Liberati compiono un lavoro splendido; da tenere d’occhio la freschezza e l’autenticità dei giovani Raffaele Argesanu, Ludovica Nasti e Tiffany Zhou, che portano sullo schermo i tormenti e le passioni di una gioventù fuorviata da falsi miti di successo e di guadagno facile.
Pensiamo alle tragicomiche storie di Filippetto e Bibbolino, le cui vite si macchiano di crimini per un paio di scarpe, che rappresentano per il primo la conquista delle attenzioni e dell’amore della sua ragazza, per l’altro il mezzo per farsi rispettare e prendere sul serio le responsabilità genitoriali. Mei e Luciana, invece, sbagliando riescono a raggiungere i loro sogni, seppure a caro prezzo, troncando di netto con la famiglia e con le loro scomode versioni passate.
La scrittura di Holy Shoes è raffinata e intelligente, nonostante intrecci le trame dei protagonisti in modo apparentemente caotico. Infatti, lo stesso mix di storie è una metafora della frammentarietà e della perdita d’innocenza di un gruppo di persone che affida il proprio destino al possedere oggetti di lusso. Ci vorrebbero più storie del genere al cinema, specie se dotate di una coesistenza di toni così equilibrata e misurata. La commedia amara all’italiana si può ancora innovare e questo film ne è la prova lampante, poiché si incammina su una strada sana, sagace, sperimentale.
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