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Holy Spider

Holy Spider, lo sguardo di Abbasi sull’Iran

9 minuti di lettura

Presentato in concorso all’ultima edizione del Festival di Cannes, dove ha ottenuto il premio per la Miglior Attrice Protagonista, assegnato a Zar Amir-Ebrahimi, Holy Spider segna il ritorno al cinema di Ali Abbasi dopo Border: Creature di confine, presentato anch’esso a Cannes nel 2018 nella sezione Un Certain Regard.

Ispirato a fatti realmente accaduti nella città di Mashhad, in Iran, tra il 2000 e il 2001, Holy Spider è un thriller poliziesco che sovverte le regoledella narrazione dei classici racconti gialli, e racconta un Iran inedito, tra prostituzione e corruzione. Un film di denuncia, dove ogni carnefice è in realtà anche vittima.

Non è un paese per donne

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Nella città santa di Mashhad un serial killer veste i panni di giustiziere della notte adescando le prostitute e strangolandole con il loro velo, in nome di Allah, per ripulire la città dal peccato e dalla perversione. 

Dopo Border: Creature di confine Abbasi torna a parlare di outsider all’interno di una società fetida. Ad investigare su questi crimini scellerati è infatti una giornalista proveniente da Teheran, una donna forte, che non si lascia mettere i piedi in testa. Poco incline al dilagante fanatismo religioso e pronta a rischiare tutto pur di catturare il killer, sarà costretta però a scontrarsi con i pregiudizi sessisti e contro delle forze dell’ordine alla quale quella “pulizia” in fondo fa comodo, perché ne condividono l’abietta ideologia.

Se l’America dei fratelli Coen Non è un paese per vecchi, l’Iran certamente non è un paese per donne.  Patriarcale e misogina, quella che ci viene mostrata anche da alcuni dei più noti e amati cineasti iraniani sembra però, dopo la visione di Holy Spider, una realtà parallela e lacunosa. In una società dove perfino una ciocca di capelli che cade lungo il volto dall’hijab può essere interpretata come segno di seduzione, e quindi punibile dalla polizia morale, Abbasi trova il coraggio di raccontare una verità volutamente occulta come quella della prostituzione, mettendo al centro del film il sesso e il corpo femminile senza remore.

Holy Spider, anatomia di un serial killer

Holy Spider è un film potente, anche per la sua forma di thriller poliziesco atipico, che sovverte le regole della narrazione e ci mostra immediatamente il killer, seguendolo poi passo passo nella sua quotidianità, parallelamente alle investigazioni e facendosi spazio tra le sue contraddizioni. 

Saeed Hanaei è un normale padre di famiglia, un veterano di guerra con la sindrome da stress post-traumatico che non avrebbe desiderato altro che morire da martire – come il suo credo gli impone -, e poiché questo non è successo sente di condurre una vita del tutto inutile. È questo che lo spinge probabilmente a compiere la sua crociata in nome di Allah.

Abbasi è metodico – tanto quanto Hanaei stesso – a delinearne la caratterizzazione e il profilo psicologico, perché quello che ci mostra in Holy Spider è un serial killer degno di una puntata di Mindhunter, di cui possiamo riconoscere i classici tratti distintivi. 

Hanaei ha un modus operandi ben definito, e Abbasi ci mostra uno ad uno gli omicidi senza risparmiarci niente. Prova una pulsione sessuale nell’atto di uccidere le prostitute – nonostante lo voglia nascondere. Torna sulla scena del crimine – o in questo caso dove ha abbandonato il corpo – per poter rivivere l’esperienza. È egocentrico e morbosamente ossessionato dalle sue azioni, tanto da controllare giorno per giorno che il giornale riconosca la sua “eroicità”, o da rifiutare l’infermità mentale durante il processo, definendosi  fieramente “pazzo dell’Ottavo Imam”.

L’esaltazione del killer e le contaminazioni

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Holy Spider vive di contaminazioni, facendo proprio il noir hitchcockiano e il thriller fincheriano.  Hanaei ricorda il John Doe di Seven, con cui condivide l’ideologia della lotta al peccato, nata da quel fanatismo religioso al quale sono stati persuasi fin da bambini. Il paragone più immediato e calzante è però quello con Travis Bickle, protagonista di Taxi Driver, anch’esso reduce di guerra afflitto dalla propria vita, e quindi quello con Arthur Fleck, allucinato giustiziere della notte nel Joker di Todd Phillips.

Hanaei condivide con loro l’esaltazione delle sue azioni da parte della società. Una volta incarcerato, gli abitanti portano addirittura dei doni alla famiglia, come si fa con un Messia, per ringraziarlo della sua opera di purificazione, e protestano con veemenza fuori dal tribunale dove si svolge il processo. Persino la moglie arriva a giustificare le sue azioni, senza un minimo di empatia per le donne uccise, in una frase che riassume perfettamente la morale della pellicola e la società iraniana.

“Non pensavo avrebbe mai fatto una cosa simile. Non pensavo si sarebbe messo a fare l’eroe”.

Il consenso è praticamente unanime, e Hanaei è il Joker, che danza trionfante in mezzo al clamore della folla, con le mani sporche del sangue di sedici donne.

Holy Spider, tutto è politica

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Holy Spider mette in scena l’incoerenza del regime iraniano e quella di parte della popolazione. Il ragno che dà il titolo alla pellicola è il killer, ma a tessere la propria tela è l’intera società. La denuncia che Abbasi metto in atto è stratificata, e il suo livello più profondo lo raggiunge sul finale, quando la politica diventa il fulcro del film.

Il processo ad Hanaei delinea i tratti di una società dove tutto è politica, e soprattutto la chiara volontà – nascosta dietro una giustizia apparente – di martirizzare il killer per elevarlo a eroe della fede. Una sentenza a morte diventa quindi la possibilità per un regime di mostrare al popolo la via per Allah e gridare con forza quell’imperante disprezzo per la donna che Abbasi trasla, in una scena finale terrificante, dal corpo e dalla mente di un padre a quella di un figlio.

“Se lo Stato non farà niente per fermare la prostituzione, ci saranno altri uomini come mio padre” dice il ragazzo, mentre con sguardo fiero mostra di fronte ad una telecamera come Hanaei uccideva le sue vittime, intanto che la sorellina si presta a fargli da tale, e avvolta in un tappetto dice con voce innocente: “Sono morta”.

Le luci in sala si accendono, lo schermo è ormai buio, oscuro come il futuro. Perché sotto un regime teocratico come quello iraniano, persino i carnefici diventano vittime e pedine in un subdolo gioco di potere.


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Sono Filippo, ho 22 anni e la mia passione per il cinema inizia in tenera età, quando divorando le videocassette de Il Re Leone, Jurassic Park e Spider-Man 2, ho compreso quanto quelle immagini che scorrevano sullo schermo, sapessero scaldarmi il cuore, donandomi, in termini di emozioni, qualcosa che pensavo fosse irraggiungibile. Si dice che le prime volte siano indimenticabili. La mia al Festival di Venezia lo è stata sicuramente, perché è da quel momento che, finalmente, mi sento vivo.

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