Il seme del fico sacro, sin dalla sue origini, si presenta come un film difficile. L’opera di Mohammad Rasoulof, presentata al Festival di Cannes 2024, vincitrice del Premio Speciale della Giuria e candidata al premio Oscar come Miglior Film Internazionale, ha portato il suo regista al termine della sua produzione – realizzata clandestinamente, senza che il governo ne fosse a conoscenza – a fuggire dall’Iran, suo paese d’origine, per evitare una condanna a otto anni di prigione e alla fustigazione dovuta ai suoi film invisi al regime.
Questo episodio, lungi dall’essere un evento che influenza il giudizio in merito al film stesso, ne permette invece una perfetta contestualizzazione. La stessa realizzazione di Il seme del fico sacro, infatti, rappresenta un atto di coraggio e di disobbedienza civile ammirevoli, soprattutto in un paese come l’Iran dove questi atti vengono puniti severamente e in maniera esemplare. Il seme del fico sacro, dunque, s’innesta in quella serie di film realizzati da autori iraniani – come il celebre caso della filmografia di Jafar Panahi – che rischiano tutto pur di esprimersi liberamente..
Il seme del fico sacro, sovvertire la pistola di Cechov
Il seme del fico sacro racconta la storia della famiglia di Iman (Misagh Zare), il quale ha appena iniziato a ricoprire la carica di giudice istruttore nel sistema giudiziario iraniano. Questo evento scombussola la vita della moglie Najmeh (Soheila Golestani) e delle due figlie Sana (Setareh Maleki) e Rezvan (Mahsa Rostami), costrette ad una vita più rimirata e privata vista la delicatezza del lavoro paterno. Nel mezzo delle continue rivolte che agitano Teheran dopo la morte di una giovane ragazza (un riferimento, neanche troppo velato, al caso di Mahsa Amini), la tensione in famiglia cresce soprattutto nel momento in cui la pistola di Iman sparisce nel nulla. Chi l’ha presa? E per farne che cosa?
Riassumere in poche righe di cosa parli Il seme del fico sacro è estremamente complicato. Nelle sue quasi tre ore di durata, infatti, la pellicola muta genere, tono e approccio ai personaggi più volte, in maniera tuttavia funzionale al discorso che cerca di portare avanti. Dopo una prima ora “osservazionale”, in cui domina un approccio da slice of life rispetto alla tipica vita di una famiglia iraniana – con particolare enfasi sui disordini che hanno animato il paese nel 2023 -, il film diventa infatti un thriller sempre più vertiginoso, in cui dominano il senso di paranoia e angoscia.
Tale senso di ansia è legato all’intelligente costruzione narrativa de Il seme del fico sacro, che sovverte una delle regole non scritte della drammaturgia, vale a dire la cosiddetta “pistola di Cechov”. Con questo lemma si definisce il principio narrativo per il quale qualsiasi elemento introdotto nella narrazione deve avere una sua utilità: non bisogna, secondo Cechov, presentare in una storia una pistola se poi essa non spara nessun colpo. Rasoulof, ben coscente di questo principio, decide di ribaltarlo: la pistola nel film c’è, viene presentata sin dalla prima inquadratura, ma cosa succede quando un elemento certo della narrazione, all’improvviso, sparisce?
La seconda metà de Il seme del fico sacro, incentrata principalmente sul nucleo familiare di Iman, è interamente costruita sulla suspence derivata dalla sparizione dell’arma, e dalla perfetta consapevolezza da parte del pubblico che prima o poi l’arma tornerà e sparerà. Rasoulof imbastisce dunque una narrazione che cambia completamente il genere e i toni fino a quel momento stabiliti, prendendo in contropiede lo spettatore con un senso di suspence non inteso alla maniera strettamente hitchcockiana.
Questa precisa scelta narrativa presa dalla pellicola non è fine a sé stessa, ma è anzi funzionale al discorso politico che il film vuole esplorare ed esporre. La tensione provata dallo spettatore, infatti, richiama e rispecchia la tensione che i membri della famiglia vivono durante un periodo così turbolento della politica iraniana. Rasoulof costruisce un film di genere, dunque, in cui la sua costruzione è direttamente funzionale e centrale per il discorso di Rasoulof, in merito alle dinamiche e ai sistemi di potere che dominano in Iran.
Il potere patriarcale dietro la suspance
Nell’assetto familiare al centro de Il seme del fico sacro, infatti, vi sono due generazioni: quella dei genitori e quella delle figlie, ognuna delle quali presenta una visione opposta rispetto alle vicende di Mahsa Amini. Da un lato la generazione più grande vede nella legge islamica un valore assoluto e intoccabile, qualcosa che non può essere messo in discussione – valori rappresentati dalla fede e dedizione incrollabile di Imen nel suo lavoro -, dall’altro lato le nuove generazioni, tendenzialmente più aperte alla globalizzazione e a costumi meno radicali – come in questo caso le figlie che vogliono tingersi i capelli e truccarsi, e passano il loro tempo con lo smartphone.
Queste visioni conflittuali ne Il seme del fico sacro rispecchiano in maniera evidente le diverse parti che si sono manifestate durante le rivolte e le manifestazioni del 2023, direttamente richiamate nel film, non solo dalle notizie che i protagonisti ascoltano in televisione e sui loro smartphone, ma anche da veri filmati, girati con mezzi di fortuna come i telefoni cellulari, delle vere manifestazioni avvenute in giro per l’Iran e inseriti all’interno della pellicola in diversi momenti, anche in chiusura della stessa.
Tali assembramenti e manifestazioni, evidentemente il fulcro de Il seme del fico sacro, non vengono solo viste attraverso la vicenda familiare (come se quest’ultima fosse una metafora degli eventi pubblici contingenti), ma al tempo stesso diventano la causa scatenante di tale conflitto. Ne Il seme del fico sacro, insomma, Mohammad Rasoulof cerca di indagare come queste nuove correnti di pensiero che agitano la società iraniana penetrino in maniera così profonda nel tessuto sociale, fino ad arrivare ad inquinare e smascherare istituzioni e ruoli di potere anche all’interno della famiglia stessa.
La pistola, storicamente associata al fallo (e quindi al potere maschile), diventa al tempo stesso simbolo e artefice di uno smascheramento del potere patriarcale insito in maniera profonda nella società iraniana, quello stesso che le rivolte a seguito della morte di Mahsa Amini hanno cercato di attuare. È proprio attorno a questo concetto che si fonda l’ultima, inquitetante mezz’ora di film: le maschere del potere sono finalmente calate, il giudice istruttore si mostra come simbolo violento dell’istituzione opprimente che impiega tutti i mezzi a sua disposizione per reprimere le rivolte possibili all’interno della stessa.
In quest’ottica, l’ultima inquadratura girata da Rasoulof ne Il seme del fico sacro risulta risolutiva al tempo stesso sia della crisi familiare raccontata, sia del problema più ampio dalle rivolte. Un’immagine – seppur molto banale nella cultura iconografica occidentale, ma potentissima e coraggiosa per il suo significato, soprattutto in un paese come l’Iran – che nella sua violenza risulta carica di speranza e di ottimismo per il futuro di un intero paese.
Il seme del fico sacro, nuove armi per una nuova generazione
Un ulteriore elemento di interesse all’interno de Il seme del fico sacro è la centralità degli schermi. Nel corso del film, infatti, i personaggi sono perlopiù inseriti in ambienti chiusi – scelta dipesa anche dalla clandestinità delle riprese -, costretti a guardare il mondo esterno e gli avvenimenti attraverso finestre reali o mediali. Le due principali fonti di informazione in questo senso sono la televisione e i social media, ognuno dei quali è associato a personaggi e generazioni differenti: se la televisione (di regime) viene principalmente fruita dalla madre Najmeh, le due figlie si informano principalmente grazie ai video su Instagram che si inoltrano a vicenda.
Questo scontro tra immagini filmate di diversa natura, si presenta come uno degli elementi centrali de Il seme del fico sacro, non solo per l’ulteriore esemplificazione dello scontro generazionale e di visioni che il film rimarca, ma anche e soprattutto perchè sottolinea l’importanza e la centralità delle immagini nella costruzione del discorso politico e sociale contemporaneo in Iran (e non solo). Come ben sappiamo dalle cronache, infatti, le realtà della Rete sono state fondamentali nella diffusione delle rivolte delle giovani donne iraniane, e questa componente viene fedelmente riportata all’interno del film.
Tale riconoscimento viene sottolineato da Rasoulof come fondamentale non solo per il riconoscimento stesso della rivolta, ma come un vero e proprio nuovo strumento di potere e di autoaffermazione nella società contemporanea. La pervasività della Rete in tutta la pellicola, presente sia a livello diegetico sia nei montaggi con le vere riprese delle manifestazioni, sottolinea la nascita di una nuova potente piazza pubblica che fino ad ora non è stata regolamentata. In questo nuovo, invisibile e onnipresente spazio, chi crea immagini o possiede dati personali ha il controllo e il potere di sovvertire i media e le cariche tradizionali.
Il seme del fico sacro, in breve
Il seme del fico sacro sottolinea in modo evidente come, per le nuove generazioni (o più in generale in questo mondo digitalizzato), un cellulare può diventare più potente di un’arma. La sequenza dello scontro tra le due coppie, ognuna delle quali brandisce un telefonino con videocamera accesa come arma e spauracchio per l’altra coppia, risulta particolarmente esemplificativa di questa nuova forma di potere che risiede nelle nuove tecnologie e nelle immagini che queste riescono a produrre.
In questo intrecciare di simboli, giochi di scrittura e di tono, Il seme del fico sacro si distingue non solo per il suo essere un’opera profondamente coraggiosa, di disobbedienza civile rispetto ad un sistema considerato ingiusto e opprimente, ma al tempo stesso per essere un lavoro di profonda arguzia e raffinatezza di scrittura e messinscena, nella sua capacità di cogliere e di rendere il presente nelle sue più complesse sfumature politiche e sociali.
Il seme del fico sacro di Rasoulof, nella sua intelligenza e ottima fattura, s’inserisce dunque – a differenza di altri titoli recenti, come il dimenticabile Leggere Lolita a Teheran – nel filone del grande cinema iraniano che da anni ormai – forse, purtroppo, anche a causa delle limitazioni dell’attuale regime – produce titoli di grande impegno politico e sensibilità artistica.
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