Una scena del film Slanted di Amy Wang che racconta di un'America razzista in cui l'etnia è considerata un difetto estetico

TFF 43 – Slanted, cancellare la propria etnia

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Nell’America contemporanea dal forte daltonismo etnico, che appiattisce ogni identità e senso di appartenenza, bisogna adeguarsi all’immagine dominante, apparire fisicamente figli di una certa cultura, sembrare, contro ogni equivocabile dubbio, nati con specifiche e suprematiste fisionomie. Così in Slanted, diretto dall’esordiente Amy Wang, in Concorso al 43° Torino Film Festival, il razzismo non è più una questione da affrontare politicamente, tra progetti di sensibilizzazione e programmi di inclusione attiva, ma è piuttosto un problema estetico, un cavillo cosmetico, di una pelle troppo melanocitica rispetto al bianco candido della purezza, e così automaticamente da sbiancare, ripulire, come una spugna che gratta via ogni sfumatura per tornare a risplendere perfetta.

Slanted, guida metamorfica per essere accettati

Shirley Chen interpreta Joan Huang in Slanted di Amy Wang. un'adolescente sino-americana che sogna il ballo della scuola e di cambiare il suo aspetto per sembrare ancora più occidentale

Joan Huang (Shirley Chen) è un’adolescente sino-americana che fin da quando è bambina sogna di diventare la reginetta del ballo della scuola, vedersi finalmente riconosciuta americana più che popolare. In quel mondo razzista e bullizzante persino la fame, come gli hamburger di carne pubblicizzati nelle strade, deve essere 100% tale: purezza e (apparente) autenticità. Non c’è spazio in Slanted per un altro o altrove, per un’altra bandiera che divampi nel cielo insieme a quella stelle e strisce, su cui gli studenti giurano fedeltà, riuniti in piedi, ogni mattino a scuola.

Un padre che l’adora, una madre che cerca ancora di avvicinarla alle loro radici originarie (la vecchia ricetta dei ravioli della nonna, il cinese mandarino che «sta riuscendo a diventare lingua globale»), ma quando Joan passa nella Walk of Fame scolastica, tra i cloni bianchi e ingombranti che incombono in gigantografie fotografiche sui suoi piccoli occhi a mandorla presi uguali dai suoi antenati, sogna di cambiarsi, assolversi negli occhi degli altri, diventare esattamente quello stereotipo, come la Barbie priva di imperfezioni interpretata da Margot Robbie nel film omonimo di Greta Gerwig, impreziosita da un filtro Snapchat da appiccicarsi sulla faccia.

Improvvisamente sul cellulare di Joan iniziano però ad arrivare dei misteriosi messaggi da un’oscura società, Ethnos, che sembra profilare per lei un nuovo futuro raggiante. Un progetto sperimentale di crescita cellulare, in grado di manipolare la pigmentazione, trasformare in unico colpo volto, capelli e voce. «Se non puoi batterli, sii come loro» recita lo slogan. Il capitalismo mette un contratto sul razzismo, pensando di contrastarlo lo pubblicizza, e da manuale, anche se garantisce di non farlo per soldi, assembla pacchetti promozionali, extra allettanti, sconti di piani familiari che per policy non prevedono rimborsi. L’unica clausola (tra le tante non dette) in Slanted è l’irreversibilità, la permanenza assoluta di quel trattamento di bellezza reintegrativa.

Una scena del film Slanted di Amy Wang in cui Mckenna Grace interpreta la versione rifatta della protagonista dopo uno sperimentale trattamento chirurgico che cambia pigmentazione e asspetto del volto

Viene facile pensare al recentissimo The Ugly Stepsister, non solo perché permane la stessa pratica medica che sotto i ferri opera una riqualificazione sociale prima che estetica (patologizzando bruttezza, razzismo e sue sfigurate derivazioni), ma soprattutto perché in entrambi, seppur con esiti e intenzioni differenti, permane lo stesso archetipo fiabesco di Cenerentola, di un ballo in cui brillare, di cui essere regine soltanto all’ombra di un re (in Slanted traslato più metaforicamente di Uncle Sam) che è a capo di un reame in via di dissoluzione.

L’America sformata d’oggi raccontata in Slanted sembra infatti incapace di tenere insieme quei tanti fili che formano una multinazionale (più che multinazione) di differenti etnie, da esporre al massimo in ritratti d’arte nelle proprie ricche dimore come pezzi di arredamento da spolverare e contemplare senza alcun interesse antropologico tra pari. Siamo nell’epoca in cui l’ideologia eugenetica, che fin dal Novecento vorrebbe selezionare geni vantaggiosi e desiderabili a scapito di altri, si è spinta oltre la scienza, con la concreta possibilità anche biologica di ingegnerizzare in toto il genoma, costruirlo fino a renderlo fenoticamente impeccabile.

Slanted, alla ricerca di un’originalità mancata

Una scena del film Slanted di Amy Wang in cui Shirley Chen è una giovane adolescente di origine cinese alle prese con il razzismo americano

Raggirando con l’inganno l’autorizzazione dei genitori, Joan aderisce così al programma che promette di ricostruirla da zero. Nel corpo incantevole che ottiene (con tanto di cambio d’attrice a Mckenna Grace) – capelli biondi esplosivi, scintillanti occhi azzurri, grazioso nasino all’insù – Joan viene finalmente scambiata per americana, amica popolare a cui non voltare più le spalle.

Ma com’è facilmente intuibile, le cose in Slanted non vanno come dovrebbero. Non tanto per la forte riluttanza dei genitori e della sua unica vera amica, i quali dopo aver scoperto la trasformazione non riconoscono più in quell’apparenza fittizia nemmeno il suo correlato interiore che l’aspetto dovrebbe (ma non riesce) a conservare, ma perché da quel momento la pelle di Joan inizia materialmente a desquamarsi, a collassare, come una pellicola protettiva (dal razzismo, dalla diversità) che non ha attecchito abbastanza, in un corpo prostetico destinato a invecchiare più in fretta di quello originario. The Substance insomma, molto, troppo in realtà.

Il problema di Slanted è in effetti proprio che manca di una sua autenticità, riprende pari pari tutto il cinema già esistente sull’argomento, con il pregio, certo, di traslarlo in un contesto specifico e inedito – tra le questioni razziali di Get Out, e il contesto da teen movie americano (anti)educativo per definizione – ma la regia di Amy Wang in Slanted non si scolla da lì, da quelle forme cinematografiche consolidate, citate, persino devote, mai reinterpretate dentro il cinema con sguardo proprio e personale.

«È così bello essere bianchi» suona il motivetto di una canzone promozionale. Bello almeno fino a quando non si scopre il nostro segreto, di essere culturamente rifatti, nati cancellando fin dall’alba dei tempi i volti degli altri. Ecco l’America e la sua «vera uguaglianza».


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Classe 1998, piemontese, passo costantemente dal buio della sala a quello della camera oscura, sognando sempre un mondo in bianco e nero stampato a mano con la grana fine. Sospeso tra l'immaginazione visionaria di Leos Carax e il realismo magico di Alice Rohrwacher, quando non scrivo di cinema (e per il cinema), studio medicina.

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