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Immagine tratta da C’eravamo tanto amati in cui i tre protagonisti si abbracciano. Da sinistra, Nicola (Satta Flores), Antonio (Manfredi) e Gianni (Gassman).

50 anni fa C’eravamo tanto amati

14 minuti di lettura

Non è facile scrivere di un film come C’eravamo tanto amati, anche a 50 anni dalla sua uscita, avvenuta il 21 dicembre 1974. Non è facile perché tutti questi anni non hanno messo distanza fra chi scrive – e probabilmente anche chi legge – e i contenuti del film: la storia è scorsa, l’Italia è cambiata e con essa gli Italiani. Eppure, pare di vivere nella naturale prosecuzione del film e questo è merito del regista e dei due più grandi sceneggiatori che l’Italia abbia mai avuto, Agenore Incrocci e Furio Scarpelli.

Siamo immersi nelle rovine di quella stessa cultura: anche se ci crediamo assolti, siamo lo stesso coinvolti, siamo posti davanti ad uno specchio senza distorsioni dietro cui nasconderci e, come è ben risaputo, passare alla rassegna il proprio volto ne mette in luce solo ed esclusivamente i difetti. Più noi italiani ci osserviamo, più l’immagine che ci viene restituita è avvilente, perché piena di macchie, rugosa, rovinata. C’eravamo tanto amati ci riguarda nell’intimo, nel collettivo e nel cinematografico più di qualsiasi altro film mai prodotto qui nel Bel Paese.

C’eravamo tanto amati e lo specifico filmico

I protagonisti di C’eravamo tanto amati mangiano insieme: da sinistra, Nicola (Satta Flores), Gianni (Gassman) e Antonio (Manfredi).

Fin dalla primissima sequenza, C’eravamo tanto amati espone chiaramente il perno tematico attorno a cui ruota tutto: lo scorrere del tempo. I protagonisti Manfredi (Antonio), Sandrelli (Luciana) e Satta Flores (Nicola) si avviano a riconsegnare i documenti perduti dal quarto personaggio principale, Gassman (Gianni). Legati da un’amicizia nata durante le battaglie per la Liberazione partigiana, da tormentate storie d’amore e da una sofferta ma coerente militanza politica, i tre si ritrovano di fronte una villa con piscina, che dicono sia impossibile appartenga all’amico cui stanno riportando la patente, proletario come loro. Eppure, lui è in accappatoio, pronto a tuffarsi nella sua piscina miliardaria, costruita su anni di bugie e voltafaccia.

Il film, accompagnato dalla spettrale musica di Armando Trovajoli, ricomincia tre volte: la macchina dei compagni arriva, loro scendono, Gassman si affaccia sul giardino. Le stesse inquadrature ripetute tre volte di fila, in quella che sembrerebbe una dimenticanza di montaggio. C’eravamo tanto amati mette subito in chiaro che, se nella vita il tempo scorre in una sola direzione, al cinema può andare dove gli pare. La specificità linguistica del medium è infatti la manipolazione temporale, avvenga essa tramite un normalissimo raccordo di montaggio – con il quale possono passare anni diegetici in un secondo – o attraverso un esasperato slow motion, il regista, oltre a scegliere cosa mostrare, sceglie anche come e quando farlo.

Ettore Scola, regista di C’eravamo tanto amati – il cui titolo già premette il passaggio del tempo, in quel “c’eravamo” – racconta oltre all’Italia, anche il cinema italiano, che per decenni è stato parte integrante della vita sociale, politica e culturale del Paese. Sono proprio gli anni ’70 quelli dell’inizio della crisi: il venire meno del sostegno culturale di un intero modello ideologico, quello comunista, dovuto al terrorismo rosso; la nascita delle televisioni private; il mancato rinnovamento di una nuova generazione di autori e maestranze e, non per ultima, la prematura morte di Vittorio De Sica, a cui C’eravamo tanto amati è esplicitamente dedicato.

Scola si è dimostrato sempre capace non solo di intercettare il presente, ma anche di carpire stralci del futuro: La Terrazza (1980), Il Mondo Nuovo (1982), La Famiglia (1987) e Mario, Maria e Mario (1993) paiono esser stati scritti con la palla di cristallo, per come hanno saputo prevedere la Storia immediatamente successiva e non solo.

Ma torniamo a C’eravamo tanto amati: nell’esatto istante in cui Vittorio Gassman sta per saltare dal trampolino, il film si blocca con la suprema forma di alterazione temporale, il fermoimmagine. Come i personaggi stessi faranno notare, “questo tuffo finirà solo a fine film,” peraltro senza ripristinare il normale scorrere del tempo – si passa dal fermoimmagine ad una ripresa rallentata. Quindi, è da qui che la forma scelta da Scola, quella dell’elaborato flashback ricco di pause e annullamenti di distanze temporali, si va a riconciliare con il contenuto: trent’anni di storia italiana, dalle lotte partigiane ai turbolenti ’70. Inizia così il racconto delle vite, ma soprattutto degli ideali, dei quattro eroi di C’eravamo tanto amati.

C’eravamo tanto amati, storia del cinema come storia d’Italia

Gianni (Gassman) e Luciana (Sandrelli) in C’eravamo tanto amati.

Parallelamente alle vicende sentimentali dei personaggi, C’eravamo tanto amati funge anche da omaggio, sentito e mai retorico, ai grandi maestri del cinema italiano: Vittorio De Sica, Federico Fellini, Michelangelo Antonioni. Utilizzando frammenti dei loro film, integrati narrativamente con i gusti e le passioni dei protagonisti, C’eravamo tanto amati assegna ad ogni suo attore maschile una controparte registica: Satta Flores incarna il Neorealismo di De Sica, Manfredi il cinico romanticismo Felliniano e Gassman l’incomunicabilità alienante di Antonioni.

Al primo, Satta Flores, sono dedicate alcune delle sequenze più struggenti, in primis la sua bruciante passione per Ladri di Biciclette (1948). C’è poi uno sfiorato incontro con De Sica in persona – che appare nel film grazie a riprese d’archivio, impiegate in un geniale gioco metacinematografico – ed il malinconico mancato confronto su come il Neorealismo avrebbe dovuto cambiare le cose e fu invece azzoppato dalle ingerenze politiche di un giovane Giulio Andreotti, con la famosa “scomunica al cinema neorealista,” direttamente citata nel film.

Al secondo, Manfredi, tocca invece vivere in prima persona il set de La Dolce Vita (1960), con Fellini e Mastroianni nel ruolo di sé stessi, omaggiati da Scola con grande giocosità e irriverenza. Per ultimo, appare L’Eclisse (1962) di Antonioni, a rappresentare le dinamiche famigliari del ricco ed infelice Gassman. Qui si attua un ribaltamento della dinamica su cui si fonda C’eravamo tanto amati: non il privato come riflesso del pubblico, bensì il pubblico – cinema come arte popolare per eccellenza – che diventa il riflesso delle private storie dei protagonisti, in un’ultima e geniale trovata di Scola per problematicizzare la società italiana e le sue varie incarnazioni cinematografiche.

C’eravamo tanto amati, saremo onesti o felici?

Luciana (Sandrelli) e Antonio (Manfredi) uno di fronte all’altro in C’eravamo tanto amati.

Questa è la domanda che accompagna tutto C’eravamo tanto amati: bisogna rimanere fedeli ai propri ideali e sopravvivere oppure adeguarsi e prosperare? Da un lato abbiamo Nicola Palumbo (Stefano Satta Flores), che rinuncia a famiglia, carriera e possibilità economiche, pur di prestare fede a quegli stessi valori che lo spinsero a combattere contro i fascisti sulle montagne. Dall’altra c’è Gianni Perego (Vittorio Gassman), che a sua volta rinuncia all’amore, alla coerenza e alla giustizia, per sistemarsi e vivere dignitosamente. Al centro troviamo Antonio e Luciana (Nino Manfredi e Stefania Sandrelli), che, senza tanto preoccuparsi di ideologie, militano proattivamente tenendo in equilibrio la propria fede politica con il proprio lavoro.

Sarà l’amore che tutti e tre gli uomini provano per Luciana a decretare il loro progressivo allontanamento. E, come in tutti i più grandi film, anche in C’eravamo tanto amati lo specifico funge da metafora per l’universale: i tradimenti e gli abbandoni che segnano i rapporti dei quattro ci parlano dell’Italia che fu e che continua ad essere. Perché l’intelligenza di Scola-Age-Scarpelli sta proprio nel sondare sentimenti immortali, nel replicare dinamiche politiche e sociali assolutamente inossidabili e che ci dovremo portare dietro per ancora molto tempo.

Basti pensare all’iconica sequenza nella quale Manfredi e Satta Flores litigano per via delle loro diverse concezioni di socialismo, mentre Gassman li supplica di prendersela con lui, vero nemico del proletariato: pare di assistere ad una scena satirica sull’odierno panorama politico, nel quale ci si scanna fra alleati e si fa il gioco della vera minaccia.

O ancora, e in maniera decisamente più centrale, la frustrazione di voler cambiare il mondo ed essere infine cambiati da esso parla sì dello specifico storico dei partigiani prima e dei comunisti italiani poi, ma è ascrivibile anche a chi nel 2001 sfilò a Genova nel movimento No-Global, o a chi oggi non sa se rimanere in Italia o cercare fortuna all’estero. Tutti abbiamo un parente che non ce l’ha fatta, che si è battuto per poter vivere nel suo Paese natale, ma infine è stato costretto ad emigrare. Vi sentireste mai di giudicarlo? Chi è rimasto potrà accusarlo di essere fuggito, di aver rinunciato a giuste cause, ma in fondo sa che non potrà mai fargliene una vera colpa.

In C’eravamo tanto amati, tutti i protagonisti sono in qualche modo simpatetici: per quanto ripugnante sia il voltafaccia di Gassman, la sua scelta è comprensibile, in quanto personaggio tridimensionale e sfaccettato; per quanto settario e ossessivo sia Satta Flores, mentiremmo se dicessimo di non invidiare un poco l’integrità e l’orgoglio con cui ha rifiutato di farsi mettere i piedi in testa. E chi invece sceglie di vivere ed amare, di sopravvivere grazie a modeste contraddizioni e grandi sacrifici, ci pare semplicemente felice. Tutti e tre ci risultano a modo loro sensati.

Quando tutt’ora il parrucchiere vi offre di pagarlo meno del dovuto ma senza scontrino, o quando sapete che quella marca di dolciumi che vi piace tanto sfrutta i suoi dipendenti, o che al piano di sotto stanno sgomberando un appartamento da una famiglia con figli per farci un B&B, cosa potete fare? Reagire o abbassare la testa? Boh.

“Ma che vuol dire boh?”

“Boh vuol dire boh.”

“Ma boh è un finale ambiguo”

“Ambiguo ma aperto”

Con queste battute finisce C’eravamo tanto amati, dopo che i compagni scoprono la vera identità del loro amico. Ma non vi è nulla di banale in questa mancata risoluzione: il finale “ambiguo ma aperto” lascia uno spiraglio di speranza perché le cose vadano meglio, perché il mondo possa effettivamente cambiare. Eppure, la tristemente naturale presa di coscienza nei confronti di Gassman da parte degli altri tre lascia in bocca un terribile sapore dolceamaro, come se quel finale non fosse che il normale ordine delle cose e l’eccezione fosse incarnata dalla povertà e l’onestà di Satta Flores, Manfredi e Sandrelli.

Non lasciatevi ingannare: un finale del genere, per quanto ambiguo circa il futuro (una magica redenzione del padrone? Una possibile rivoluzione proletaria dietro l’angolo?) lo è molto meno coi personaggi. Gassman è oggettivamente deplorevole, ma la sua umanizzazione e la raffinatezza con cui Ettore Scola la costruisce servono a farci capire che siamo tutti ad un passo dal diventare come lui. Il suo individualismo e la sua conseguente tristezza sono realtà tangibili, costantemente in agguato ad ogni svolta della vita. Perché noi, nella vita vera, non abbiamo un montaggio che ci blocchi a mezz’aria prima di tuffarci a capofitto nell’orrore dell’indifferenza, o che faccia ripartire tre volte la nostra giornata, dandoci la possibilità di essere migliori.


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Appassionato e studioso di cinema fin dalla tenera età, combatto ogni giorno cercando di fare divulgazione cinematografica scrivendo, postando e parlando di film ad ogni occasione. Andare al cinema è un'esperienza religiosa: non solo perché credere che suoni e colori in rapida successione possano cambiare il mondo è un atto di pura fede, ma anche perché di fronte ai film siamo tutti uguali. Nel buio di una stanza di proiezione siamo solo silhouette che ridono e piangono all'unisono. E credo che questo sia bellissimo.

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