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Amsterdam è un film che vuole tutto, persino troppo

9 minuti di lettura

Dopo una pausa di sette anni David O. Russel torna al cinema dal 27 ottobre con Amsterdam, film dal cast stellare che si è presentato fin dal trailer ambizioso, frenetico, dinamico e divertente. Russell prende ispirazione da un avvenimento reale ma semi ignorato della storia americana, arricchisce la sua creazione della presenza di attori incredibili, si affida a collaboratori di talento, come il direttore della fotografia Emmanuel Lubezki (premio oscar per Gravity, Birdman e Revenant) ma il suo ritorno sul grande schermo sembra non convincere del tutto. Russel è un narratore inefficace o è il suo modo di fare cinema, questo continuo oscillare tra spinte autoriali e celebrazioni mainstream, a risultare imperfetto?

Amsterdam è una storia vera?

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Un dottore tossico con un occhio di vetro (Christian Bale) e un avvocato afroamericano (John David Washington) sono i protagonisti della storia che Russell ha deciso di raccontare, reduci di guerra, amici e collaboratori si troveranno coinvolti contro il loro volere in un omicidio e dovranno improvvisarsi, insieme all’amica ex infermiera (Margot Robbie), cadetti investigatori per risolvere un intrigo che si rivelerà essere più grande di quanto avrebbero mai potuto immaginare. Questo è solo l’incipit di un racconto che prenderà così tante diramazioni da far perdere la strada anche allo spettatore più attento, introdurrà così tanti personaggi che è quasi impossibile ricordarli tutti, insomma Russell costruisce un altro dei suoi ricchi, multistrato racconti corali.

L’Amsterdam del titolo è luogo fisico ma anche sentimentale in cui i tre protagonisti hanno vissuto, alla fine della prima guerra mondiale, il momento più felice della loro vita, alimentando un rapporto che segnerà la loro vita per sempre. Ma la storia si svolge per lo più a New York all’inizio degli anni 30 e l’omicidio in cui si troveranno coinvolti è il tramite per la riflessione centrale di Amsterdam, una riflessione che partendo dal nascente fascismo degli anni in cui si sviluppa la storia, traccia un parallelismo con la situazione odierna.

È qui che si innesta la storia vera dietro Amsterdam, da cui Russell ha preso spunto: quello che è stato chiamato Business Plot, una presunta cospirazione politica che nel 1933 voleva destituire il presidente Franklin D. Roosevelt e insediare un dittatore. Fu Smedley Butler a denunciare il complotto portato avanti da ricchi uomini d’affari che volevano creare un’organizzazione di veterani fascisti con a capo proprio Butler e usarla per rovesciare il governo.

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Una storia così ricca non può che veicolare molteplici riflessioni: il cardine di Amsterdam è sicuramente il complotto fascista, ribadito, se ce ne fosse bisogno, dal filmato di repertorio inserito prima dei titoli di coda.

Russell vuole forse far riflettere sulla situazione odierna, americana e non solo, in cui nazionalismi sempre più spinti si manifestano e prendono piede e derive semi fasciste nascono senza vergogna. Ma il discorso di Russell non diventa didascalico inserito nel vortice generale di argomenti, come per esempio la guerra e il razzismo. Solo sul finale il voice over risulta eccessivo, dilungandosi in maniera del tutto inutile in un discorso sull’amore e sulla libertà.

L’apparenza inganna ancora

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Amsterdam è un grande, strabordante contenitore di cose, storie, diramazioni, impulsi; come ci ha abituati da tempo, Russell non è restio ad arricchire il fulcro centrale della sua storia con flashback, storie secondarie e riflessioni fuori campo così da dare corpo a una narrazione caleidoscopica, volutamente confusa e confusionaria.

In Amsterdam tutto è sottolineato e rimarcato dalla scelta di girare spesso a camera a mano e dalla predilizione per inquadrature ravvicinate e a tratti vertiginose, esasperate dal basso o dall’alto. La recitazione degli attori, Christian Bale (anche produttore) sopratutto, contribuisce a creare quel senso di artificiosità volutamente ricercato.

La storia reale come quella inventata e scritta in sceneggiatura da Russell vengono scavate all’interno, dissezionate, sono utili solo come impalcatura per permettere a Russel di allestire una grande messa in scena dallo spirito vagamente teatrale. Il set è un grande palcoscenico su cui si esibiscono di volta in volta gli attori chiamati a interpretare personaggi altrettanto incredibili, sopra le righe, folli, irreali. Ogni volta che un attore compare in scena sembra di vedere aprirsi il sipario e la star fare un grande ingresso teatrale a favore di pubblico, come aspettandosi un applauso.

È il cinema di Russell, è un modo di allestire la scena a cui ci aveva già abituati ai tempi di American Hustel, e Amsterdam in questo senso sembra rimarcare quanto l’apparenza conti ma in fondo inganni sempre.

Ogni attore (la lista è lunga: Christian Bale, John David Washington, Margot Robbie, Rami Malek, Robert De Niro, Anya Taylor-Joy, Mike Myers, Michael Shannon, Matthias Schoenaerts, Alessandro Nivola, Chris Rock, Zoe Saldana, Taylor Swift) è inquadrato dalla macchina da presa nel modo migliore possibile, esaltando sia l’aspetto estetico sia quello grottesco proprio di ogni personaggio così come dell’intera storia a cui appartengono.

Questo continuo rimando a grandi star, l’affidarsi quasi completamente alla loro bravura come alla loro fama, alimenta il senso di estraneazione di cui Amsterdam si compone e si è portati a chiedersi se questo sia voluto o meno. Se in generale si è propensi a optare per la prima opzione ci si domanda comunque quale sia il fine di tale operazione, che Russell voglia svuotare di senso le storie raccontate per mostrarci il vero volto (secondo lui) della società a cui appartiene, quella americana? I suoi racconti sembrano tutti diretti in questa direzione, in effetti, come se volesse mostrare quanto la società che abbiamo costruito sia vuota, inconsistente e problematica, basata esclusivamente sull’apparenza, e solo in superficie sembri contorta, caotica e ricca.

Amsterdam come rigurgito post modernista

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Amsterdam inoltre appare come un grande caleidoscopio di rimandi e citazioni, derivato della narrativa, dell’estetica e del mondo di costruire la scena di altre produzioni di incredibile successo.

Questo aspetto non è del tutto un male, perché il rigurgito post modernista di Russell, questo raggruppare diversi stimoli e shakerarli assieme sembra essere fatto in maniera consapevole e riuscita. Amsterdam, infatti, sembra l’addizione dei personaggi borderline e sopra le righe di Wes Anderson e del ritmo concitato e della narrazione frenetica di Guy Ritchie. Inoltre il racconto, essendo in tutto e per tutto un’indagine condotta da persone inadatte allo scopo, rimanda inevitabilmente a due grandi esempi del genere: il Big Lebowski dei fratelli Cohen e il più recente Inherent Vice di Paul Thomas Anderson. Di questi ultimi due film citati non riprende le atmosfere vagamente noir, ma la costruzione di alcuni passi narrativi e la ricerca del divertimento attraverso l’ironia e il surreale sembrano decisamente famigliari.


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Chiara Cazzaniga, amante dell'arte in ogni sua forma, cinema, libri, musica, fotografia e di tutto ciò che racconta qualcosa e regala emozioni.
È in perenne conflitto con la provincia in cui vive, nel frattempo sogna il rumore della città e ferma immagini accompagnandole a parole confuse.
Ha difficoltà a parlare chiaramente di sé e nelle foto non sorride mai.

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