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Everything Everywhere All At Once è tutto ciò che siamo e un po’ di più

Il significato di Everything Everywhere All At Once è ancora invisibile. Un film così denso e intricato è un dono ai posteri, ma ne siamo noi i primi responsabili.

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9 minuti di lettura

 Everything Everywhere All At Once è nei cinema italiani dal 6 ottobre ed è già uno spartiacque. È il film del momento, per alcuni dell’anno. Lo dirigono i Daniels (Swiss Army Man), è il record di incassi per la A24 e non c’è modo di descriverlo in breve. Un film inscritto nelle (il)logiche del multiverso, assurdo e imprevedibile, ironico ma serissimo. Everything Everywhere All At Once possiede pregi e difetti delle pietre miliari. Il suo primo pubblico lo accoglie ad applausi spiegati, ma ne è anche intimorito. La mente corre a Matrix. Perché il film delle Wachowski ha un posto di rilievo negli omaggi collezionati dai Daniels. Ma anche perché come Matrix, Everything Everywhere All At Once sconquassa il grande schermo con creazioni pregevoli e fantasiose, posate con precisione sotto lo zeitgeist di un tempo che lo acclama e ne è troppo vicino per capire – del tutto – perché.

Everything Everywhere All At Once inventa molto, ma è nello sviluppo di idee sottese da anni che è perfetto. Il multiverso, la parodia, il genere e il mezzo, il meta e il film come puzzle; insieme ordito senza timore di fare affidamento alle strutture classiche. Per questo è difficile eppure chiarissimo. Non un film sul multiverso, ma – dicono – quello definitivo. Culmine e vetta. Ci chiede molto – attenzione, fiducia – ma dà di più. Da outsider con un budget contenuto, costretto a trovare soluzioni e farsi grande anche di fronte ai limiti (vera condizione per l’innovazione artistica), Everything Everywhere All At Once tempra le forme nuove e brucia le tappe dei grandi franchise. Più che intenzioni avanguardiste, strada sterrata verso l’impossibile, Everything Everywhere All At Once è incrocio eccellente di ogni immagine che ci ha già attraversato gli occhi. 

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Everything Everywhere All At Once è fatto bene, molto bene. Non è, solo, una questione tecnica. È una faccenda di frequenze. Everything Everywhere All At Once intercetta il pubblico, lo ingaggia e non lo imbroglia. Il film è complicato ma lo capiamo; ci capisce. Parla di noi senza guardarci mai. Non si prostra, ma ci è vicino. C’è un punto di inizio, c’è un punto di fine. Non ci sono scene post credits. È compiuto, imperfetto e ridondante, ma sempre giustificato. Ha regole, istruzioni, porte d’accesso e vicoli ciechi. Per questo induce all’analisi sfrenata, all’osservazione eccessiva.

Prendiamo il multiverso. È un mezzo, ma si pone tema. Serve a parlare delle dinamiche dell’universo e dei movimenti quotidiani che ci scuotono dentro. Serve a dire che c’è tutto ma anche niente, che siamo ovunque ma soprattutto qui. Una struttura che fa questione e parla di frammentarietà, scissione dal mondo in piccoli spazi personali. Everything Everywhere All At Once punta il dito all’infinitamente grande e compone una cosmogonia della quotidianità, canto epico di tutti i giorni. Ci affascina osservare il film dei Daniel come puntando una lente su un quadro di Hieronymus Bosch, divertiti e sorpresi dalle mille vite che lo popolano, ma è il passo indietro che rivela l’incredibile. Non le singole intuizioni ma il grande cosmo che formano. 

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Il film è tutto profondità e dimensioni: la prima soglia della protagonista è al di fuori di un ascensore (up and down) mentre il passaggio da un universo all’altro sfonda lo schermo in una perpendicolare perfetta, trovando fondi su fondi. Un film fragile che si finge indistruttibile. Non vuole recensioni. È studiato nel dettaglio per imporre subito un livello successivo; quello dell’interpretazione che mette a soqquadro l’immagine, la legge al contrario e urla “Eureka”. Eppure, per ora, si consuma alla parcellizzazione dei suoi elementi, tecnici e teorici. Un film sulla famiglia e sul multiverso, sul quotidiano e l’universale. Un film di film – in tutti i sensi – riuscito perché nella moltiplicazione di protagonisti e possibilità rimane sempre coeso. 

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Il multiverso è un rischio: moltiplica gli epicentri del racconto, sgretola l’unicità del viaggio. Ma Everything Everywhere All At Once ha due direzioni. Non discute mai la sua protagonista – la prima Evelyn e famiglia – ma ha grande pietà per ogni suo doppio messo in scena. Lo sguardo a universi paralleli è sempre travolto di compassione, definito dal rispetto. C’è di che ridere – non solo delle forme più assurde, ma soprattutto di quelle più semplici – eppure ogni alternativa giustifica il nostro sguardo oltre al voyeurismo da naviganti del multiverso. Una tesi: amor vincit omnia. Declinata al multiverso – sinonimo delle varietà di mondi che popoliamo ogni giorno – è un innesco. Quando il film pronuncia una delle sue battute più commoventi,  “Ho visto la mia vita senza di te… era bellissima”, ne respiriamo il mix letale di possibilità e malinconia. Dopo aver riso del mondo in cui le persone hanno wurstel al posto delle mani, i Daniels tornano alle immagini con un affetto imprevisto. Ci leghiamo a quei personaggi, ne scopriamo la legittimità.  

Everything Everywhere All At Once non si perde in lezioni di fisica, non ci obbliga a prendere appunti, non fa teorie che non siano questioni squisitamente umane. Everything Everywhere All At Once ha il respiro lungo e popolare delle grandi narrazioni. Un film di grande azione, di grande sorpresa, che ha più di tutto un grande cuore.

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Tra le tante possibilità, Everything Everywhere All At Once è anche un monito. Perché il film dei Daniels avanza spedito nella convinzione che così come le vite alternative siano infinite e ammalianti, lo stesso siano storie, schermi e racconti che ci circondano. Cedere al desiderio di un mondo diverso, più colorato o variopinto, è sempre possibile, spesso taumaturgico. Ma nessuno può vivere tutto ovunque in un solo momento: serve ricucirsi, farsi sintesi. Circondati da possibilità e racconti, restare qui – presenti nel proprio universo – è sentiero percorribile.

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Dopo Everything Everywhere All At Once viene voglia di tenere lo schermo spento, per un po’. Sia per riconquistare il silenzio (rarità nelle due ore di film), sia per ritrovare l’unicità di quel nero su cui possiamo non proiettare, sempre, ovunque, di continuo, nuovi mondi. Anche la nostra storia – senza arti marziali e piroette – può essere incredibile. Everything Everywhere All At Once è un film sul cinema, ma anche un film contro di esso, esasperazione delle possibilità e della creatività e assieme ode al suo azzeramento nella banale epicità della vita quotidiana. 


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Studente di Media e Giornalismo presso La Sapienza. Innamorato del Cinema, di Bologna (ma sto provando a dare il cuore anche a Roma)e di qualunque cosa ben narrata. Infiammato da passioni passeggere e idee irrealizzabili. Mai passatista, ma sempre malinconico al pensiero di Venezia75. Perché il primo Festival non si scorda mai.

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