Il multiverso è un concetto di cui sappiamo spaventosamente poco, e questo pare sia un problema anche per gli sceneggiatori (di accreditato c’è stranamente solo Michael Waldron) del nuovo Doctor Strange in the Multiverse of Madness, diretto dal maestro dell’horror Sam Raimi. La via a singhiozzo intrapresa dal multiverso MCU esiste però e sembrerebbe – ancora troppo presto per dirla tutta – un evidente vuoto narrativo che lascia il tempo che trova.
Ciò non toglie che il multiverso sia un concetto che, prima ancora di essere sconosciuto, è soprattutto affascinante: dalle radici profonde dell’atomismo ateniese all’infinità dell’Universo teorizzata da Giordano Bruno, il cinema non può che unirsi alla riflessione esistenziale per eccellenza, giocandoci in svariati modi e forme e non per forza toccando la scienza, ma perscrutando prima di tutto la psiche umana, sede primaria di ogni cosa creata.
Un film è innanzitutto invenzione narrativa e la differenza con una teoria scientifica come, ad esempio, la Teoria delle Stringhe – una delle più popolari sull’astrazione del multiverso – è puramente lo scopo narrativo, che nella scienza viene sostituito dalla pura razionalità: ma razionalità e narrazione, l’inventio in generale, sono concetti astratti e immateriali. Come l’empirista George Berkeley formulò: “Se un albero cade in una foresta e nessuno lo sente, fa rumore?”.
Molti film, prima (e meglio!) del Marvel Cinematic Universe, ci hanno gettato in multiversi reali e immaginati, della mente e del corpo. Scopriamo i migliori e perché il cinema si dia sempre come multiverso.
Le tracce del multiverso in Donnie Darko
Parte di questa riflessione è intrinseca al film Donnie Darko (2001) di Richard Kelly, con interpreti i due giovanissimi fratelli Jake e Maggie Gyllenhaal. Donnie Darko (Jake Gyllenhaal) è un ragazzo con evidenti problemi psichici, scampa a morte certa e dopo l’incidente mancato scopre di avere poteri tali da controllare tempo e spazio.
Condito da una buona dose di surrealismo puro, Donnie Darko è un film in grado di riflettere sull’esistenza umana, ma in particolar modo rende universale la solitudine di un ragazzo rinchiuso in una gabbia psichica. Grazie a Donnie Darko viaggiamo nello spazio superando il tempo, per poi arrivare al finale in cui lo stesso concetto di tempo è oramai superficiale.
Un mondo come quello di Donnie Darko è surreale ma apre le porte a un universo sconosciuto, quello oltre il tempo stesso, e dopo di esso manca completamente, citando l’album Xenoverso (2022) del rapper italiano Rancore, “lo scibile umano”.
C’è una critica infondata a Donnie Darko, ovvero quella di essere un film che scimmiotta abbastanza David Lynch: ma Richard Kelly non ha mai trattato di sogni e, nonostante il surrealismo a suo modo di Lynch, il film di Kelly non ci parla di psiche umana a livello freudiano. Mulholland Drive (2001) è la parabola di un sogno che poi si avvera, proprio come sembra fare Donnie Darko, ma la differenza con quest’ultimo è che Mulholland Drive si astiene completamente da ogni sorta di ricerca immersiva sul multiverso, mentre il film di Richard Kelly studia lo spazio intorno al protagonista di Gyllenhaal che sembra non percepire le sue stesse sensazioni.
Il realismo e l’ordinarietà dei personaggi di Donnie Darko rendono il suo protagonista un messia del multiverso, in grado di vedere le cose oltre la staccionata del mainstream. E così facendo viene svelato uno scandire del tempo e dello spazio che ci immergono in dimensioni parallele: il finale del film, rende il suo inizio un’alternativa a quello che poteva succedere; la fidanzatina del protagonista, Gretchen Ross (Jena Malone), in una diversa realtà non conosce né Donnie né la famiglia, eppure quel saluto finale tra lei e la madre di Donnie Darko appare straniante sia a noi che a loro.
Il multiverso e la parabola Rick & Morty
Ma infatti il punto di partenza della nuova fase del Marvel Cinematic Universe (o sarebbe meglio dire Multiverse a questo punto) è proprio What If, cosa succederebbe se… In realtà questo processo sembra ancora estremamente confuso e acerbo, ma molti altri film e Serie TV hanno avuto il coraggio di prendersi il tempo necessario per interagire con il multiverso.
Basterebbe citare Doctor Who, un vero e proprio viaggiatore spazio-temporale, ma anche il successo Netflix, che inaugura quest’anno la sua quarta stagione, Stranger Things, dove in realtà il multiverso è un luogo profondamente sconosciuto e antagonista.
Parlando di televisione e multiverso, però, non è possibile dimenticarsi di Rick & Morty, il popolarissimo show dell’Adult Swim che vede tra l’altro la produzione, e in qualche caso anche la scrittura, del già citato Michael Waldron, lo sceneggiatore del nuovo Doctor Strange e showrunner di Loki. Ed è proprio dall’esperienza passata in Rick & Morty che Waldron prende ispirazione per la struttura del multiverso marveliano.
La Serie TV prodotta e distribuita da Adult Swim – da noi Netflix – concepisce, e anzi dà per scontato, l’esistenza di più universi come base di partenza delle storie narrate. Così, a mano a mano, il concetto di multiverso nella serie diventa protagonista, fino ad arrivare agli eventi della Cittadella, luogo in cui tutti i Rick e i Morty dei vari universi vivono e si autoregolano in una vera e propria società. Proprio come Donnie Darko, la popolarità di Rick & Morty è accompagnata dal fascino che l’estrema vastità mindblown del discorso sul multiverso riesce a dare.
Se infatti Doctor Strange arriva facilmente alla soluzione del problema dei viaggi nel multiverso – una ragazzina apparsa dal nulla che ha inconsciamente la capacità di farlo – Rick e il suo compagno di viaggio Morty, hanno tutto il peso da Paradosso di gatto di Schrödinger sulle spalle: il multiverso esiste, ma la vastità degli spazi che sono, fino a prova contraria, in espansione e infiniti, rendono impossibile una conoscenza approfondita. Proprio perché si va oltre la concezione tridimensionale della realtà, ognuno di noi comincia a considerare irreale la possibilità di un qualcosa di più vasto dell’universo.
Multiverso e opera d’arte: un concetto autoriale
Il cinema e la tv per questo motivo, finito l’isolamento psichico risieduto nel nostro mondo, incominciano letteralmente a viaggiare nell’universo ma non solo, anche in quelli degli altri. Ma non in una maniera scientifica. Perché, per quanto un film come Interstellar (2014) di Christopher Nolan, sia tecnicamente indiscutibile, e fisicamente possibile, lo spazio di azione del multiverso dalla carica effettivamente immersiva lo dà prima di tutto la psiche umana, capace di generare mondi, universi, fino a perdersi completamente nella coscienza del proprio Sé.
Sempre Rancore riguardo il suo nuovo album Xenoverso ha detto:
è un viaggio (si riferisce alla lavorazione del disco ndr.) che, se devo dirti la verità, alla fine mi sembra di aver fatto davvero. Non è solo una narrazione che creo per suggestionare: ammetto che a un certo punto sono entrato in terreni pericolosi, sono un po’ impazzito. È come rompere un uovo: la realtà è solo un guscio e nasconde un mistero enorme, ma una volta rotto non si torna indietro. Come il protagonista del film π – Il teorema del delirio, il rischio è di iniziare a confondere la realtà con il fantastico e a connetterti a cose che prima non avevi proprio considerato.
Il concetto di multiverso è metafora degli strati mentali che ogni autore affronta ogni qualvolta scrive la propria opera, è una sfida autentica al proprio Io, un qualcosa di troppo grande da gestire in certi casi ma di maestoso da portare sullo schermo.
Rancore nell’intervista cita non a caso π (1998), l’opera prima del regista Darren Aronofsky, in cui un matematico – proprio come Donnie Darko – capisce che attraverso il suo lavoro coi numeri può effettivamente predire il futuro. Il controllo della matematica, dello spazio, del tempo e della cognizione di sé stessi rischia di sfuggire di mano a ogni secondo, ed è l’autore in persona a dover calibrare questo gioco mentale.
Il motivo per cui Doctor Strange parla del multiverso come un concetto spaventosamente sconosciuto, è dato proprio dal fatto che, sia in Donnie Darko, che in π, che in Rick & Morty, che in tutte le altre opere – non abbiamo parlato di Man in the High Castle e Dark, ma sono anch’esse concepite nella stessa maniera – il multiverso è un opzione rischiosa: suscita il fascino dello sconosciuto, del complesso salto nel vuoto della psiche, incapace di dare risposte certe perché consapevole di toccare un terreno scivoloso e in cui la caduta dell’Io rischia di essere infinita.
Quindi, l’albero nella foresta è caduto o no?
In copertina: Artwork by Alessandro Cavaggioni
© Riproduzione riservata
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