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Full Monty, un cult che non ha paura di mettersi a nudo

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10 minuti di lettura

Si alza il sipario e sei uomini della provincia inglese di Sheffield si lanciano sulle note di You Can Leave Your Hat On di Randy Newman. Sono operai licenziati dopo la chiusura della fabbrica di acciaio in cui lavoravano, sono mariti e padri di famiglia, sono spogliarellisti che imprimono per sempre la loro firma su uno dei cult più rappresentativi del cinema britannico di fine anni ’90.

Si intitola Full Monty – Squattrinati Organizzati (The Full Monty) l’esordio alla regia nel 1997 di Peter Cattaneo, regista che, dieci anni dopo, porterà in sala The Rocker – Il batterista nudo, con il Rainn Wilson di The Office.

Quella di Cattaneo è una carriera cinematografica in cinque atti, che inizia con il botto. Full Monty è il suo primo film e viene subito nominato agli Oscar del 1998 per miglior film, miglior regista, miglior sceneggiatura originale e miglior colonna sonora e vince l’ambita statuetta per quest’ultima nomina.
Dietro le quinte troviamo il produttore Uberto Pasolini, pronipote di Luchino Visconti, e lo sceneggiatore Simon Beaufoy (The Millionaire, Hunger Games – La ragazza di fuoco). Una coppia esplosiva che nel 2023, a 26 anni dall’uscita del film, si lancia nella realizzazione dell’omonima serie TV, approdata in streaming su Disney + il 5 luglio.

Sulla piattaforma, dove è anche disponibile il film del 1997, ritroviamo i nostri spogliarellisti improvvisati a qualche anno di distanza. Tra di loro Robert Carlyle, Mark Addy e Tom Wilkinson, che portano sul piccolo schermo l’eredità di un film talmente fruibile e godibile, pur nel suo racconto amaro, da essere diventato anche un musical teatrale proposto e riproposto in ogni dove nel corso del tempo. E non è un caso che l’espressione inglese Full Monty significhi “servizio completo”, non solo per l’esperienza integrale che offrono gli spogliarellisti di Sheffield, ma anche per il lascito eterno di una pellicola che non invecchia mai.

Full Monty, raccontami Sheffield

Full Monty

Sheffield, nel South Yorkshire, è una città di più di 500.000 abitanti, che diventa celebre durante la rivoluzione industriale per la produzione di acciaio. La Seconda Guerra Mondiale, poi, assorbe ogni energia di Sheffield per la massiccia produzione bellica e la città viene presa di mira dai bombardamenti. Tra edifici distrutti e palazzoni popolari si aprono così gli anni ’80 di una crisi del settore, che dilaga in una disoccupazione sempre più pervasiva. Gli anni ’90 non sono diversi, ed è qui che incontriamo Gaz (Robert Carlyle) e Dave (Mark Addy), due migliori amici che tirano sera rubando travi da rivendere nella fabbrica abbandonata dove un tempo lavoravano.

Il resto della giornata lo passano all’ufficio di collocamento, dove fingono di cercare un lavoro mentre aspettano il momento di catapultarsi al bar. La loro quotidianità ormai spenta sembra ridotta alle stesse azioni meccaniche, finché qualcosa non accende Gaz. In città arriva un gruppo di spogliarellisti che si esibisce nel bar locale, le donne impazziscono e Gaz manda in avanscoperta il figlio Nathan, rischiando il già precario affidamento condiviso per cui sta lottando. Ma la sua è subito un’illuminazione per trovare soldi facili, che accattiva l’interesse di un mondo di uomini disoccupati disposti a tutto per portare a casa la pagnotta.

Così Gaz forma la sua squadra di spogliarellisti, dov’è proprio l’ex capo dirigente della fabbrica, Gerald (Tom Wilkinson), ora disoccupato anche lui, a insegnare al gruppo i passi base di danza. Tra rocambolesche prove, goffamente sexy e di una comicità indelebile, il percorso dei protagonisti di Full Monty passa attraverso un percorso di scoperta e accettazione personale. C’è chi scopre una nuova sessualità, chi impara ad accettare il proprio corpo e a sentirsi di nuovo desiderabile, chi fa dello spogliarello un nuovo battesimo, per risvegliarsi dal torpore e rimettersi in gioco. E quell’unico spogliarello finale integrale (chiuso in un solo ciak, come ha rivelato il regista) è l’atto conclusivo di una trasformazione umana.

Non solo Full Monty, la commedia britannica degli anni ‘90

Quando esce in sala Full Monty, è passato un anno dal 1996 di Trainspotting, perla acida di Danny Boyle che ha consacrato Robert Carlyle nel ruolo di Begbie. È lo stesso anno di Febbre a ’90 di David Evans, che traccia su pellicola l’educazione sentimentale del tifoso, con un indimenticabile Colin Firth. È l’anno precedente all’uscita, nel 1998, di Lock And Stock – Pazzi Scatenati di Guy Ritchie, che introduce un nuovo volto della commedia brillante, ritmato e adrenalinico, e getta le basi per il successo esploso tre anni dopo con Snatch.

Ma cos’hanno in comune queste tre commedie? Sono graffianti, schiette, dirette e sincere. Sono vere e pregnanti, perché non si limitano a raccontare una storia, ma raccontano un contesto sociale, con un tipo di narrazione sempre diversa, ma peculiarmente familiare. Ecco, quindi, che Full Monty si lancia negli anni ’90 senza aspettative, tanto che la 20th Century Fox è molto delusa dopo aver visto i primi girati. Tuttavia, dopo aver ingranato la marcia, il film conquista tutte le sale e poi le televisioni britanniche e ancora oggi stanzia in Top 30 tra le pellicole più viste di sempre in Gran Bretagna.

Il segreto di eterna giovinezza di Full Monty riposa nella narrazione di una quotidianità drammatica con un’impronta genialmente ironica. È il potere di un pitch che funziona immediatamente dalla prima volta in cui lo ascolti: sei uomini combattono la disoccupazione improvvisandosi spogliarellisti. Da qui si legge tutto: l’alta posta in gioco dei personaggi, l’arena in cui si muovono, l’universalità di un racconto. E questi elementi si accendono in una true comedy dove la sceneggiatura originale di Beaufoy sa di storia vera e ha un gusto agrodolce, pepato e leggero.

Full Monty, il siero di eterna giovinezza

Full Monty Cattaneo

Ma perché proporre una trasposizione seriale di un cult a 26 anni di distanza? Si tratta di una tendenza diffusa produttivamente negli ultimi anni, basti pensare al recente Dead Ringers, trasposizione di Inseparabili di David Cronenberg del 1988, o ad Altà Fedeltà, dall’omonimo film di Nick Hornby del 1995 o ancora Noi, ragazzi dello Zoo di Berlino, dal cult del 1981 di Uli Edel. Non sempre un esperimento vincente, come dimostra l’ultimo caso, con una serie TV che ripropone un drammatico contesto sociale sfregiato dall’eroina e dalla prostituzione minorile della Germania anni ’80.

In alcuni casi, quindi, si avverte il gap temporale e l’impossibilità di ricreare un mondo che lo spettatore sente distante dal suo. Nel caso invece di Full Monty si parte da una premessa vincente, quella di un film che vive e rivive grazie a tematiche attuali ancora oggi. Ecco, quindi, che il problema della disoccupazione, le disuguaglianze sociali, la globalizzazione che soffoca le attività di provincia e la rivincita degli ultimi sono realtà che abbracciano un contesto odierno. Si unisce poi la contemporanea crisi dell’acciaio, accentuata dall’epidemia di Covid 19 e dalla guerra russo-ucraina e l’ancora fresca Brexit in un panorama che parla la stessa lingua di ieri.

Ma invece di affacciarsi alla cruda verità in chiave drammatica, la scelta del cinema di chiamare a sé la commedia è una chiave intelligente per raccontare, senza sminuire, il delicato equilibrio su cui si sorregge la nostra contemporaneità e che vive della forza di coloro che stanno ai margini e lottano ancora.


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Classe 1996, laureata in Comunicazione e con un Master in Arti del Racconto.
Tra la passione per le serie tv e l'idolatria per Tarantino, mi lascio ispirare dalle storie.
Sogno di poterle scrivere o editare, ma nel frattempo rimango con i piedi a terra, sui miei immancabili tacchi.

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