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La Regina degli Scacchi diventa la serie di punta di Netflix: perché?

11 minuti di lettura

Dal 23 ottobre La Regina degli Scacchi, miniserie di Scott Frank e Allan Scott, si è conquistata un posto d’onore tra le proposte di Netflix. Una trasposizione dal romanzo di Walter Travis del 1983, che veste la stella nascente di Hollywood, Anya Taylor-Joy (Split, The Witch, Emma) nei panni di una giovane e talentuosa scacchista. In breve sono fioccati applausi dalla comunità di scacchi, che ne ha riconosciuto il valore riproduttivo.

Ma anche dalla critica, grazie alla qualità estetica delle scenografie e alla brillante sceneggiatura. Questa tratteggia l’umanità dietro un gioco di labile visibilità mediatica, rendendolo affascinante e intrigante grazie alla complessa e sfaccettata psicologia della sua protagonista. Ma analizziamo più nel dettaglio cosa rende La Regina degli Scacchi un successo.

Essere La Regina degli Scacchi

La Regina degli Scacchi

La dimensione degli scacchi è una realtà intuitiva, razionale e poliedrica. Per la prima volta trova luce in una serie, dopo due film che l’hanno celebrata, La Grande Partita (2014) di Ed Zwick e l’omonima Regina degli Scacchi (1999) di Claudia Florio. Nella serie, ogni partita è realizzata sulla base di match storici del passato e ha goduto della collaborazione di due campioni: Bruce Pandolfini e Garry Kasparov.

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Il supporto non è stato puramente matematico, ma anche psicologico, soprattutto grazie a Kasparov, che ha vissuto la gloria dell’enfant prodige e le sue doverose conseguenze. Sembra però che la protagonista, Beth Harmon, sia ispirata al giocatore Bobby Fischer, con un non qualificato disturbo mentale probabilmente legato alla Sindrome di Asperger. Fischer conquistò la sua gloria tra il 1958 e il 1968, anno in cui è ambientata la serie, diventando famoso per la mossa con cui attacca sempre Beth: la Fischer-Sozin.

Una donna tra gli uomini

Un altro elemento di attrazione è dato dalla sicurezza marmorea con cui una donna si muove in un mondo di uomini. Beth ha un talento naturale e un approccio al gioco intuitivo e aggressivo che la rende unica. Ne è consapevole, ma non le sembra mai abbastanza. I suoi avversari prima sorridono, poi si preoccupano e infine l’ammirano. Ma la serietà e il rispetto che vige nella serie non rispecchia sempre la realtà.

Così la giovane scacchista ungherese Judit Pólgar ha evidenziato come in realtà sia più irrispettoso e complesso il rapporto con le donne in questo mondo. Pensiamo poi al contesto storico e sociale in cui è ambientata la serie. Quegli anni 50′-60′ dove la disparità di genere, tanto più sul lavoro, era agghiacciante. Basti pensare che nel 1966 il premio uomini per i campionati nazionali USA era 6000$ contro i 600$ delle donne.

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C’è poi una sottotrama tristemente inevitabile che tratteggia il destino più probabile delle donne in quell’epoca. Diventare mogli, poi madri e infine abbandonarsi all’alcolismo e alla solitudine, dilaniate dal rimorso per non aver inseguito i propri sogni. Per questo per la matrigna di Beth, Alma (Marielle Heller) è così importante nutrirsi della giovinezza, dei successi e della felicità della figliastra. Ma il demone della depressione e dell’insoddisfazione plagerà anche lei.

La complessità psicologica di Beth

La Regina degli Scacchi

E quest’ultimo elemento ci permette di incorniciare la complessa umanità di Beth. Un’orfana, che non conosce l’amore finchè non incontra il Signor Shaibel (Bill Camp). Quel custode le mostra un affetto paterno che incanala nell’insegnamento e della dedizione del tempo. Ma Beth non lo capisce da piccola e vede nel gioco solamente un obiettivo attorno a cui plasmare la sua vita. Perché in quelle 64 caselle ci trova tutto il suo mondo.

Ma la soddisfazione riposa tra genio e follia, creatività e psicosi. Così le pilloline verdi tranquillanti appaiono tanto invitanti nella clausura di un istituto di periferia, uno stimolo intellettuale per migliorarsi nel gioco. Ma poi ritornano aggressive con l’alcool quando la maturità diventa consapevolezza e, purtroppo, rispecchiamento. Così Beth vede nella sua matrigna l’unica immagine di donna a cui può aspirare e quell’idolatria deviata la avvolge a sua volta in un turbine di dipendenza.

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Beth non può che domandarsi cosa ne sarà del suo futuro. Cosa succede a un giocatore di scacchi quando diventa campione mondiale? In lei si aggiunge poi la paura di una bambina che si è convinta di essere sola al mondo. Ha bisogno di una guida e questa trasparirà dai personaggi maschili con cui interagisce gradualmente. Chissà come sarebbe stato il suo personaggio in veste maschile, così come l’aveva immaginato Walter Travis. E pensare che anni fa, in una prima trasposizione del romanzo, a vestire il brillante scacchista doveva esserci Heath Ledger.

La cornice dei personaggi secondari

L’importanza dei personaggi secondari è tangibile, poiché influenzano, direzionano e sostengono il viaggio dell’eroina rappresentato da Beth. Tutti rimangono affascinati e si innamorano di quella personalità glaciale e all’apparenza indipendente, che si aggrappa a loro nei momenti bisognosi e ne riconosce l’importanza solamente quando sembra troppo tardi.

Così dall’ex avversario Harry Melling (Harry Melting) trae conforto dopo la morte di Alma, mentre Benny Watts (Thomas Brodie-Sangster) è l’eterno campione da cui Beth assorbe tutto quello che può per l’agognato incontro con il Maestro russo. Tuttavia non riesce a innamorarsi di nessuno di loro, nonostante questi traggano dalla sua figura angelica e demoniaca spirito vitale.

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Solo Townes (Jacob Fortune Llyod) è quell’amore che non potrà mai essere corrisposto, dato che lui è omossessuale. Ma, nonostante il sogno d’amore adolescenziale, Beth non può abbracciarne la connotazione romantica che tutti agognano. A lei serve un affetto più radicato e al tempo stesso ingenuo, quello familiare e amicale che solitamente è dato per scontato, ma non per lei.

L’appagamento estetico

La Regina degli Scacchi

Ma non è solo l’intreccio drammatico a rimpinguare la storia, poiché anche anche la cura estetica è uno dei punti di forza de La Regina degli Scacchi, con scenografie curate da Uli Hamisch (Babylon Berlin). E non sono solo gli spazi evocativi di Berlino e del Canada, dove è stata girata la serie, a dipingere una cornice iconica, ma anche la minuziosa attenzione alla moda.

Così Beth, che spende tutte le vincite in denaro in vestiti, cambia abbigliamento con l’evoluzione della sua personalità. Da timida ragazza castigata e introversa, attraversa l’evoluzione fashion da camicette e gonne a ruota anni Cinquanta a stivali alti e minigonne anni Sessanta. Anche il colore suo rossetto diventa più scuro mano a mano che la sua personalità esplode.

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E nulla è lasciato al caso, poiché la stilista Gabrielle Binder si è ispirata al design anni Sessanta e ha permeato tutto il guardaroba di Beth con texture in richiamo agli scacchi. Non solo, ma anche il personaggio di Benny è stato costruito immaginando un artista della cerchia della Factory di Andy Warhol. Si unisce poi la reiterazione cromatica di verde e bianco, sia negli ambienti che nei vestiti di Beth e una perfetta combinazione di palette da omaggiare Wes Anderson.  

Cosa ci lascia La Regina degli Scacchi

La Regina degli Scacchi

La linearità narrativa di una ragazza alla conquista del suo sogno è quindi un concetto universalmente riconoscibile empaticamente. Ciò che cattura uno spettatore e ne allontana un altro è come viene costruito il sogno. Attraverso una vivisezione psicologica che ci permette di vedere una realtà diversa con gli occhi di Beth. Per lei l’ordinario è eccezionale e il dettaglio di nicchia diventa strumento emotivo. Dal ritratto onirico degli scacchi sul soffitto, all’algidità con cui conduce il gioco, sembrerebbe difficile avvicinarla.

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Ma non è così. Lasciandosi trasportare dalla storia, senza inibizioni né perplessità fino alla fine, tutto ciò che vediamo è tremendamente avvolgente. Ci piace anche quel lieto fine, che non necessita uno sviluppo successivo e da cui intuiamo lo step emotivo finale raggiunto da Beth. Quell’affetto sfaccettato e riscoperto in diverse sfumature, che finalmente lei accetta, in pace con sé stessa.


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Classe 1996, laureata in Comunicazione e con un Master in Arti del Racconto.
Tra la passione per le serie tv e l'idolatria per Tarantino, mi lascio ispirare dalle storie.
Sogno di poterle scrivere o editare, ma nel frattempo rimango con i piedi a terra, sui miei immancabili tacchi.