Incontrare personalità eterogenee come Mario Monicelli e Nanni Moretti seduti uno dinanzi all’altro. Diventa possibile navigando sulla piattaforma streaming RaiPlay, dove è possibile trovare le puntate di un programma andato in onda tra la fine del 1977 e l’inizio del 1978, Match. Il programma, condotto dallo scrittore e politico Alberto Arbasino, aveva lo scopo di invitare due personalità divergenti di un determinato ambito culturale o politico, al fine di provocare una discussione nel merito. Nel pubblico erano spesso presenti anche personalità meno illustri ma «addette ai lavori», in grado di porre domande ficcanti per gli ospiti.
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Invitati nella puntata nel merito del cinema sono, per l’appunto, i due registi da profili e carriere, fino a quel momento, molto diverse. Da un lato Mario Monicelli, uno dei massimi rappresentanti della commedia all’italiana, che nell’anno 1977 poteva vantare, nella propria filmografia, lavori riconosciuti come stelle polari del cinema italiano: si possono ricordare I soliti ignoti (1958), La grande guerra (1959), L’armata Brancaleone (1966), La ragazza con la pistola (1968), Amici miei (1975).
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Dall’altro lato, invece, Nanni Moretti. Studente classicista, realizza già a vent’anni (1973) il primo cortometraggio, La sconfitta, rivisitando in chiave comica il ’68. Succede un altro cortometraggio, Pâté de bourgeois nello stesso anno, e un mediometraggio l’anno successivo, Come parli frate?. Il successo arriva però con il primo lungometraggio, Io sono un autarchico, nel 1976. Girato con bassissimi costi di produzione, porta il nome del giovane Moretti alla ribalta.
Gustoso è quindi seguire la conversazione e gli scambi di opinione avvenuti durante la puntata, seguendo tre aree tematiche.
L’odore del successo
Si presentano con due abbigliamenti ben diversi: classico giacca e cravatta Monicelli, camicia e maglione tipicamente studenteschi Moretti. Quest’ultimo parte con la prima domanda irriverente, rivolta a Monicelli, ma in generale a tutti i registi della vecchia scuola della commedia, tanto da rivolgersi sempre con “Voi”: «Perché la ricerca angosciosa del successo? Paura di deludere parte del pubblico?». Le posizioni sono più sottili. Monicelli cerca il successo per esprimere al più ampio pubblico possibile le sue idee e, perché no, spinto anche dalla propria vanità. Moretti invece è interessato a fare film che gli piacciano, senza seguire moventi di mera riuscita commerciale.
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Da questo punto si innesta una questione più tematica: il divismo è fondamentale per la riuscita del film? Segue subito una discussione sulla differenza di costi di produzione, laddove Monicelli aveva appena prodotto un film da alti costi come Un borghese piccolo piccolo, Moretti per il primo film vantava «solo» 3 milioni e settecentomila lire.
Moretti vs Monicelli: formazione ed eredità
Moretti continua sul solco tracciato, seguendo la linea della critica alla vecchia guardia: il pubblico non deve seguire le leggi stabilite da «voi», il pubblico è cresciuto e capace di scegliere. Per giunta, accusa la generazione di Monicelli di non aver allevato i loro successori, i loro aiuto registi. La risposta è piccata, dato che nomi come Pontecorvo e Rosi sono passati e stati aiutati dal regista romano.
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La questione così vira sul cinema americano, specialmente sulla New Hollywood, che aveva saputo lanciare giovani e talentuosi registi. Monicelli qui conduce una personale battaglia su un modello che non ritiene debba essere esemplare: la nuova ondata di registi americani ha fatto gavetta in televisione, ha prodotto, prima, a bassi costi, per poi passare ai kolossal. Uno sforzo creativo che s’assopisce verso uno sforzo di produzione economico. Secondo Monicelli, si tratta di un «cadavere che sta in piedi». Affermazione quanto mai profetica, considerato che con il fallimento commerciale dei Cancelli del cielo, nel 1980, si sancirà proprio la fine di questo periodo. Senza contare gli elogi sperticati verso attori divini come Robert De Niro o Al Pacino, dimenticando però che attori italiani come Vittorio Gassman o Nino Manfredi, se fossero americani, sarebbero ben più idolatrati di quanto avvenga.
Cos’è la Commedia italiana
Arbasino introduce con una domanda l’ultima tematica: la commedia all’italiana, come dichiarato dallo stesso Monicelli poco tempo prima, ha portato a maturazione politica e civile il popolo, grazie alla rappresentazione dei vizi e delle virtù? O piuttosto non porta alla loro imitazione? Il regista romano si difende, l’umorismo o il grottesco hanno una funziona catartica. Ritiene anche che lo stesso Moretti abbia realizzato un film tipico da commedia, per altro non così riuscito.
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Una domanda dal pubblico, di un’attrice americana immigrata, Norma Jordan, tocca un tasto dolente: il regista è sempre stato sincero con le sue attrici femminili? La risposta è un’ammissione: ha sempre considerato le donne in un certo modo, come la società di quel periodo indicava, senza rifletterci troppo: ci vorrebbe, secondo lui, una nuova società. Ma il regista romano saprà trasformarsi, dato il passaggio dal maschilismo di Amici miei all’esaltazione della donna nell’opera Speriamo che sia femmina (1985).
Si conclude così, dopo 40 minuti estremamente densi, uno scambio, un confronto di vasta riflessione cinematografica. Salutati dall’affabile sorriso di Arbasino, si rimane con la sensazione di aver assistito ad un grande incontro generazionale, che lascia domande non risposte, su cui continuare a interrogarsi.
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