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Un'immagine tratta da Playing God, cortometraggio in stop motion di Matteo Burani e Arianna Gheller: una statua di plastilina di forma umana copre in parte un volto tetro e gigante, quello dello Scultore

Playing God, long live the new clay! [intervista agli autori]

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29 minuti di lettura

Presentato alla scorsa Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia nella sezione SIC@SIC – il concorso dedicato ai cortometraggi di giovani cineasti italiani della Settimana Internazionale della Critica -, Playing God è un corto d’animazione di Matteo Burani e animato da Arianna Gheller, entrambi a capo di Studio Croma, studio di animazione indipendente, attivo da quindici anni e specializzato in opere per il cinema, la TV e il web, con diverse tecniche di animazione a passo uno.

Attraverso un impianto estetico e narrativo estremamente ricercato, Playing God è un’opera che riesce a costruire un racconto dai toni grotteschi, inquietanti ed esistenzialisti. Quella di Burani e Gheller è una riflessione sull’esistenza, sul mal di vivere, sulla formazione dell’identità, sulla sofferenza individuale e sull’esorcizzazione collettiva di tale sofferenza. Un progetto in grado di parlare a tutti, che è riuscito a ritagliarsi uno spazio nel circuito festivaliero internazionale: solo nelle ultime settimane, Playing God è stato proiettato al FAN Festival, vincendo il premio al Miglior Cortometraggio, oltre che al Fantasticon Film Festival di Milano, durante il quale ha ricevuto altri riconoscimenti.

Abbiamo avuto modo di parlare con i due autori di Playing GodMarco Burani (MB) e Arianna Gheller (AG) – di tutto ciò che riguarda il loro progetto, delle tecniche di animazioni da loro utilizzate, delle loro influenze cinematografiche e dello stato dell’arte dell’animazione in Italia al giorno d’oggi.

Storia e genesi di Playing God

Un'immagine di Playing God di Matteo Burani: il protagonista si guarda attorno nello studio del Creatore

Ambientato nello studio di uno Scultore misterioso e oscuro, Playing God racconta della creazione di una scultura da parte di un artista tormentato, alla continua ricerca di una perfezione ideale e irraggiungibile. Quando anche questa ultima creazione, infatti, non riesce a raggiungere gli inarrivabili standard del suo creatore, viene rifiutata da quest’ultimo, trovandosi costretta a vivere assieme agli altri scarti dello Scultore e a condividere con loro lo stesso dolore.

Una storia, quella scritta da Burani e Gianmarco Valentino – co-sceneggiatore del progetto Playing God -, nata da un qualcosa di veramente personale e intimo per i suoi autori, anche se agli inizi questo progetto non aveva assolutamente una forma precisa. Nelle parole di Matteo Burani, “Tutto era partito dalla necessità di voler raccontare un’idea, ma non sapere ancora cosa concretamente.” Da questa esigenza, nasce un progetto di lavoro certamente anomalo per il campo dell’animazione: avviato nel 2017, Playing God si sviluppa a partire dall’impianto visivo e dall’animazione, da cui si è poi costruita la storia.

Dice Arianna Gheller: “Per il fatto che l’animazione è un processo lungo e anche costoso, si tende a fare un sacco di pre-produzione, quindi definire tutto in anticipo, per poi quasi non improvvisare niente, no? Invece noi siamo partiti al contrario, si può dire, perché siamo partiti con la necessità del fare; quindi, siamo partiti subito con un canovaccio, siamo partiti con l’animazione perché avevamo bisogno di lavorarci, e poi invece abbiamo iniziato a scrivere, a fare l’animatic [uno storyboard animato, nda], però non del tutto definitivo.

È proprio all’interno di una produzione così anomala come quella di Playing God che si è andata definendo una storia e un impianto che si è continuamente raffinato:

MB – Abbiamo avuto tutto il tempo del mondo, abbiamo avuto tanto tempo per pensare effettivamente alla storia. Questa cosa qui probabilmente ci ha aiutato nel cercare questa forma breve di racconto dove abbiamo capito per filo e per segno, magari, come mettere in scena tutti i determinati momenti, come far passare psicologicamente le cose…

AG – Diciamo che il tempo ha permesso una sintesi secondo me efficace del tutto, no? […] è stata una continua ricerca, una continua ri-manipolazione fino ad arrivare alla sintesi di oggi.

Un'immagine di Playing God di Matteo Burani: un coro di creature deformi si sporge per prendere qualcosa - o qualcuno - nell'ombra di un luogo oscuro

Al netto di un processo di produzione particolarmente anomalo, a guidare tanto nella scrittura quanto nella produzione stessa il progetto Playing God, ci sono stati dei principi e delle idee ben salde – in primis, il ricorso al genere e ai toni dell’horror e del grottesco rivolto ad un pubblico di giovani e di adulti. “Qualcosa, anche, che si staccasse da quella che era la nostra parte di animazione per bambini” dice Burani “[…] Io penso che Playing God sia principalmente anche per ragazzi, non dico proprio per bambini, ma… beh, se avessi visto una cosa del genere alle elementari ne sarei stato folgorato!

AG – Diciamo che può sfamare quel tipo di pubblico che comunque continua ad esistere, che al giorno d’oggi fatica a trovare, appunto, materiale da visionare, perché il mercato è verso più un’altra…

NPC – Quello [il pubblico, nda] di Tim Burton, diciamo…

AG e MB – Sì, sì. Esatto.

Un'immagine di Playing God di Matteo Burani: la testa del protagonista viene misurata dal Creatore

Questa scelta, condivisa da tutto il team di Studio Croma al lavoro sul progetto, ha orientato quest’ultimo verso una storia che avesse spiccati toni da body horror. Playing God, infatti, è incentrato sulla creazione di un nuovo corpo e sul dolore straziante provato dalla creatura nei confronti del rifiuto del suo Creatore. Questo la porterà a modificare – anche se involontariamente – il proprio corpo, manifestazione fisica del suo spirito e del suo stato d’animo traumatizzato e disintegrato. Questo tema lega in modo evidente Buroni e Gheller a quelli che sono i modelli di riferimento dichiarati dai due autori per la creazione di Playing God:

MB – Io vengo dalla scuola di David Cronenberg, Lars von Trier e tutti i registi che in qualche modo hanno mi hanno stregato fin da giovane età. […] Avevo una passione sfegatata, e il body horror, appunto, di David Cronenberg mi ha fatto proprio scuola. È un qualcosa di talmente tanto figo a livello concettuale, a livello di immaginario, che ho tantissime volte pensato “quanto avrei voluto farlo io”, mentalmente. Quindi Playing God è Videodrome, Playing God è The Fly, Playing God è un mix fra la regia del Dogma di Lars von Trier, Le onde del destinoÈ un calderone estetico con una spolverata di Jan Švankmajer ovviamente […].

AG – Oppure mi viene in mente da dire anche, per esempio, nella nostra volontà di creare un effetto speciale, la maschera in silicone per lo Scultore: anche lì i riferimenti sono agli effetti dei film horror anni ‘70, ’80… oppure [in riferimento alla scena finale, nda] come riferimento abbiamo preso Midsommar di Ari Aster, dove ci sono le ancelle che, appunto, piangono con lei [Dani Ardor, interpretata da Florence Pugh, nda] in questo coro. Questo concetto di gruppo che si trasforma in un’onda, sia di movimento che sonora, l’abbiamo messo in quella parte lì.

Playing God, un incubo fatto di plastilina

Un'immagine di backstage di Playing God di Matteo Burani: la capo animatrice Arianna Gheller lavora alla costruzione di un frame del corto
Arianna Gheller modella il protagonista sul set di Playing God

Uno degli elementi di maggiore interesse rispetto a Playing God è il lavoro sull’animazione e sull’estetica del corto, fondamentali in un progetto che parla espressamente dell’atto creativo e, nello specifico, dell’atto della scultura – richiamandosi, dunque, alle tecniche di animazione scelte per il film. Il ricorso al plurale, “tecniche”, non è casuale, né tantomeno un errore. Come spiega Arianna Gheller, infatti, “all’interno [di Playing God, nda] ci sono tre tecniche diverse” di animazione in tecnica passo uno, ognuna differente dall’altra in base al tipo di materiale impiegato:

AG – [In Playing God, nda] si può individuare la claynimation, che è tutta l’animazione che riguarda la plastilina. […] La seconda tecnica è la puppet animation, quindi tutto quello che è puppet, con all’interno un’armatura snodabile: nel nostro caso i puppet erano coperti di plastilina. […] E poi c’è la pixelation, che è l’animazione degli esseri umani. Quindi lo Scultore, che doveva essere un umano, è stato un umano. Ci doveva essere un attore, che in questo caso è stato Matteo [Burani, nda], che si è prestato, ed è stato animato frame per frame come se fosse un puppet di fatto.

L’esigenza di unire queste tre tecniche” prosegue la capo animatrice Arianna Gheller “beh, innanzitutto è perché volevamo fare una figata, volevamo una cosa unica nel suo genere; poi, perché volevamo unire la dimensione del reale, l’attore umano, con la parte un po’ più legata al fantastico […]. Questi due mondi, come facevamo a unirli? Utilizzando queste due tecniche insieme.

Un'immagine di backstage di Playing God di Matteo Burani: la capo animatrice Arianna Gheller lavora alla costruzione di un frame del corto
Un’animatrice dello Studio Croma al lavoro sul set di Playing God

Da un lato, l’effetto ottenuto attraverso la compresenza di queste diverse tecniche in Playing God è sicuramente impressionante, vista la grande abilità nel riuscire a far coesistere nella stessa inquadratura piani di realtà differenti in modo assolutamente credibile. Dall’altro lato, però, questa scelta artistica ha creato non poche difficoltà durante la produzione:

AG – Non è stato per niente facile, perché in stop motion già fare soltanto una tecnica è complesso: oltre che a livello di tempo, ci sono tutti dei problemi, delle varie sfide che si presentano e tu le devi risolvere sempre, in maniera creativa il più delle volte. Prova ad immaginare cosa vuol dire unire tre tecniche insieme! […] Lui [Matteo Burani, nda], poverino, per esempio: se io dovevo stare lì a scolpire per quaranta, cinquanta minuti un frame – per muovere la plastilina e poi i puppet -, lui doveva star fermo quaranta, cinquanta minuti! Quindi è stato tutto una sfida… noi all’inizio non sapevamo come farla, questa cosa, e l’abbiamo imparata nel tempo.

Tra gli elementi formalmente più significativi di Playing God, sia per quanto riguarda l’estetica, sia per la produzione in sé, è stata la scelta del ricorso alla plastilina come materiale per scolpire i personaggi. Un materiale che riesce a donare una consistenza materica e un’espressività alle figure in scena davvero notevole. Riflettendo sulla necessità di impiegare in Playing God questo materiale, Burani e Gheller dicono:

MB – L’intenzione di partenza è [legata al] fatto che abbiamo un protagonista di plastilina, abbiamo un circondario di altri personaggi, sempre realizzati in plastilina, ma una plastilina intesa come carne […] il concetto era quello di personaggi che provengono… è fango, è terra, è argilla fondamentalmente… È la creazione del Golem ebraico, sotto certi aspetti, un qualcosa che ti riporta proprio a quel tipo di elemento lì, ma è un’argilla che appunto deve portarti alla carne, deve essere viscerale e soprattutto deve trasmettere, in quei momenti, anche dolore, nell’essere tirata, nell’essere in qualche modo strappata, e quindi questa visione è stata l’ABC con cui è nato questo progetto.

Un'immagine di Playing God di Matteo Burani: il protagonista compie uno sforzo disumano, che gli deforma visibilmente il volto

AG – Dal punto di vista pratico, invece, tecnico, abbiamo scelto questo materiale di fatto per le sue caratteristiche intrinseche: […] una delle caratteristiche all’interno del film, proprio anche nello storytelling, è la metamorfosi, la mutazione, la creazione. Quindi, la plastilina è un materiale perfetto, appunto perché non indurisce, è elastica, per realizzare queste forme che passano da una forma all’altra. Quindi è stata una scelta sia a livello di concept, sia pratica. Anche il colore è stato una scelta calcolata, perché di plastilina esistono [tantissimi tipi], un sacco di tinte, di colori, e quindi anche quello è stato studiato.

Seppur, dunque, una scelta motivata e lungamente pensata, gli autori di Playing God si son ritrovati a scontrarsi con le grandi difficoltà che il ricorso a questo materiale comporta:

MB – Il progetto è stato realizzato per quell’80% di claynimation, quindi vedi sempre plastilina, sempre le imperfezioni, le impronte digitali, seppur tenute al minimo perché comunque ci siamo incentrati tantissimo sull’espressività. […] Pensa che, appunto, una fotografia è una scultura diversa: anche solamente per fare un micromovimento facciale, ci sono tutte fotografie in cui devi scolpire i minimi dettagli, l’angolo della bocca, le sopracciglia e tutto il resto… gran lentezza ma allo stesso tempo una possibilità espressiva senza limiti, a tutti gli effetti.

Un'immagine di backstage di Playing God di Matteo Burani: la capo animatrice Arianna Gheller lavora alla costruzione di un frame del corto
Arianna Gheller al lavoro sul set di Playing God

Questo lavoro di grande perizia tecnica, secondo Gheller, si associa ad un lavoro di ricerca e studio da parte dell’animatore, il quale rappresenta una figura fondamentale nel processo creativo di un’opera animata, proprio in virtù di questo lavoro; l’animatore non si limita dunque soltanto alla modellazione del personaggio da animare. Sostiene a questo proposito l’autrice di Playing God:

AG – Di fatto l’animatore cosa fa? L’attore del film. Deve realizzare una performance, anche se non la fa lui o lei in prima persona, deve quasi trasferirsi all’interno del personaggio: essere lui e farlo recitare. Quindi, cosa facevo io? Per esempio, nelle inquadrature in cui c’era un primo piano, avevo uno specchio, durante la scena, e provavo a mimare i miei muscoli facciali cosa facevano durante una specifica espressione e poi l’andavo a ricreare. E quindi veramente è stato uno studio incredibile sull’acting, sull’espressività. Ci tenevo tantissimo che questo personaggio, seppur non parli, non ha voce, fosse espressivo già dallo sguardo.

Lo stato dell’arte e dell’animazione secondo Studio Croma

Lo Studio Croma, la casa di produzione di Playing God, è una delle realtà indipendenti nel campo dell’animazione in Italia più note. Con sede a Bologna, da più di dieci anni – anche se sembrano di meno, come ironizza Gheller con Burani: “Tu continui a dire ‘dieci’, ma gli anni vanno avanti e ora sono diventati quindici!” – rappresenta un punto di riferimento per l’animazione indipendente nel nostro Paese attraverso il continuo lavoro su spot, cortometraggi per il cinema, videoclip e lavori per la TV. Tra gli altri, Studio Croma ha realizzato videoclip per il coro dell’Antoniano, Lo Stato Sociale, oltre ad aver creato corti come La Valigia, nominata ai Nastri d’Argento e ai David di Donatello.

Una realtà, dunque, ampiamente consolidata e rispettata sul piano professionale, a livello nazionale e internazionale. Il motivo di questa affermazione? Secondo Matteo Burani, “come Studio Croma, utilizziamo il medium dell’animazione, e dello stop motion nello specifico, proprio per creare storie e cercare di darvi un senso attraverso un medium. […] Abbiamo abbastanza versatilità da lavorare su diversi progetti; Playing God è stato una parentesi dove si è voluta aprire, diciamo, questa oscurità; abbiamo voluto affrontate un’animazione, anche un po’ più per il suo lato oscuro, vuoi anche perché siamo inclini noi in qualche modo a questo tipo di cose”.

Immagine della presentazione di Playing God di Matteo Burani al Festival di Venezia: il regista parla ad un microfono mentre alle sue spalle c'è Beatrice Fiorentino, delegata generale della Settimana Internazionale della Critica
Matteo Burani presenta il corto Playing God alla sua prima alla Mostra del cinema di Venezia assieme a Beatrice Fiorentino, delegata generale della Settimana Internazionale della Critica

AG – Nel corso di questi anni in Studio Croma abbiamo fatto molte produzioni. Però […] la componente di sperimentazione volevamo sempre mettercela, ma banalmente anche per il fatto che la stop motion è un mondo veramente gigante, è un insieme che racchiude tante tecniche diverse di stop motion. Il mio sogno sarebbe di appunto… dai che proviamo una tecnica di stop motion diversa, alla fine le faremo tutte, lo spero! Poi… [ride] ne inventeremo di nuove! Quindi diciamo che la particolarità dello Studio Croma è il fatto che veramente la nostra produzione è variegata, tendo a dire.

Aggiunge poi Arianna Gheller, sempre in merito alla varietà della loro produzione e alla loro esperienza: “Il grande plus di questa cosa è che, lavorando sui materiali, ti rendi conto di quanto i materiali comunichino tantissimo, e quindi in base a quello che tu devi dire c’è sicuramente il materiale che ti può trasmettere un tipo di emozione diversa… in Playing God abbiamo scelto la plastilina per un motivo, su altri progetti scegliamo la stoffa, il tessuto, per un altro motivo, e via dicendo. Questo ci permette di sperimentare molto.”

Un ulteriore punto di forza del team di Studio Croma è proprio il loro approccio collettivo ai diversi progetti che affrontano, il loro essere una vera e propria squadra: “In questo tanto aiuta essere in gruppo, essere due cervelli in realtà” dice Matteo Barani “perché ovviamente se tu pensi magari ad una produzione basata su un autore, tutto gira intorno a quell’autore lì. Nel nostro caso, tutti quanti siamo un po’ degli autori, abbiamo un po’ delle sensibilità diverse.”

Immagine della presentazione di Playing God di Matteo Burani al Festival di Venezia: Marco Burani, Arianna Gheller e il resto della crew del film posano per il photocall della Settimana Internazionale della Critica
Il team di Studio Croma al photocall della Settimana Internazionale della Critica

Una realtà artigianale e indipendente come Studio Croma deve confrontarsi, al giorno d’oggi, con una realtà e un mercato, quello dell’animazione, sempre più incerto e problematico, in primis legato alla minaccia dell’ingresso dell’intelligenza artificiale nel mondo del cinema. A tal proposito, riflettono gli autori di Playing God:

AG – Me l’han fatta più volte questa domanda, e ogni volta sono un po’ in contrasto con me stessa, perché da un lato parla la parte spaventata di me che dice “Cavolo, l’intelligenza artificiale sostituirà moltissimi lavori”; dall’altra parte mi dico “Forse magari è uno strumento utile, quindi si deve imparare a sfruttarlo a proprio piacimento”.

Poi resta il fatto che ci sono degli ottimisti che mi dicono ‘Nella storia dell’uomo ci son sempre state cose nuove che venivano avanti, tipo la Tv non è mai stata sobbarcata del tutto dal Web, coesistono insieme; il libro cartaceo non è mai morto rispetto all’ebook, son sempre andati insieme’. Magari continuerà ad essere così: con una nicchia di persone che vorranno ricercare sempre l’autenticità e il reale.

MB – Fondamentalmente ci sono delle cose che, ragionandoci bene per quella che può essere l’evoluzione, non avrebbero assolutamente più senso di esistere. A questo punto io credo che […] bisogna essere [schierati] da una parte o dall’altra. La via di mezzo, per quanto mi riguarda, è semplicemente una sorta di voler trovare un lato positivo ad un progresso che sembra inarrestabile […].

Secondo me [l’AI, nda] è un qualcosa che non dovrebbe entrare nel cinema, io sono di questa categoria. Non ci deve entrare, ma ci sta già entrando […]. Ci son settori che rischiano completamente di crollare, perché al pubblico non frega niente se [un film, nda] è stato fatto da esseri umani, da persone. Loro vogliono intrattenimento, molto spesso manco quello…

AG – Nel mondo dell’animazione questo tema è molto caldo, perché ovviamente moltissimi reparti di produzione proprio rischiano di essere cancellati. Pensa che a giugno eravamo ad Annecy, che è uno dei festival d’animazione più importanti europei, e in una delle categorie, la Categoria “Commissioned film”, era partito, tra i tanti progetti di animazione, un progetto totalmente fatto con l’intelligenza artificiale [Chien Méchant “Étoile filante”, nda]. Lì i francesi pestano, e quindi alla fine della proiezione, quando è finito questo piccolo corto, tutti hanno iniziato a fischiare in sala, perché il tema è caldissimo, e, in quanto festival, inserire un progetto del genere all’interno è come creare un precedente.

Un'immagine di backstage di Playing God di Matteo Burani, in cui le mani di un animatore operano sul puppett di plastilina
Il protagonista di Playing God modellato da un’animatrice dello Studio Croma

Per quanto concerne la situazione strettamente legata al nostro Paese, per gli autori di Playing God la situazione pare ambigua e contraddittoria. Da un lato, secondo Burani, ci sono sempre più autori, anche in Italia, che stanno spingendo”, citando come esempi Dagon di Paolo Gaudio, Malattie impossibili di Stefano e Alice Tambellini e The Meatseller di Margherita Giusti (lavoro, quest’ultimo, che è stato riconosciuto all’interno di manifestazioni come la Mostra del cinema di Venezia e ha addirittura vinto il David di Donatello al Miglio cortometraggio quest’anno).

Esempi virtuosi e riconosciuti, questi, di un settore spesso sottovalutato, secondo Arianna Gheller, CEO di Studio Croma e capo animatrice di Playing God: “Avverto anche io delle migliorie nel settore, ancora forse purtroppo non si può dire che in Italia ci sia un vero e proprio mercato […], già per il fatto che non ci sia modo di distribuire animazione in Italia: già questo è un segnale che il mercato dell’animazione non c’è, o comunque non funziona molto bene. La RAI stessa non mi sembra che abbia molto interesse in questo, quindi ancora purtroppo… magari le cose cambieranno, spero. Sicuramente c’è più interesse, ma ci sono ancora tanti problemi, ovviamente i cambiamenti sono sempre pachidermici.

Oltre a questo, per Gheller il grande problema dell’animazione in Italia è “che continua ad esserci molta ignoranza sull’animazione, nel senso che anche banalmente i criteri ministeriali, ovviamente, son tutti scritti e forgiati sul cinema che per anni ha rappresentato la tradizione italiana, quella di cinema live action. [..] Ancora si tende a non differenziare le due tipologie di produzione, quindi animazione e live action. […] Per partecipare ai bandi abbiamo dovuto adattare la nostra richiesta a dei tipi di format che erano per il live action perché non esistevano nomenclature tipiche della produzione dell’animazione, a livello di step di produzione, ma anche a livello di figure autoriali che mancavano. Questo è un po’ un problema.”

Un vecchio concept poster di Playing God, in cui la scritta del titolo è impressa in una mano

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Classe 2001, cinefilo a tempo pieno. Se si aprissero le persone, ci troveremmo dei paesaggi; se si aprisse lui, ci troveremmo un cinema. Ogni febbraio vorrebbe trasferirsi a Berlino, ogni maggio a Cannes, ogni settembre a Venezia; il resto dell'anno lo passa tra un film di Akerman, uno di Campion e uno di Wiseman.

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