Presentato alla 76esima edizione del Festival del Cinema di Venezia, Sole è la coraggiosa opera prima di Carlo Sironi, regista romano classe 1983. Un racconto di esasperata freddezza sulla paternità.
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Capire la paternità con l’occhio del Cinema
Lena (Sandra Drzymalska) è una giovane ragazza polacca disposta a vendere sua figlia pur di assicurarsi un futuro. Magari in Germania, magari con qualche soldo in più. Ermanno (Claudio Segaluscio) è il ponte per questo sogno. Lui il tramite per l’acquisizione della neonata per conto di suo zio; interessato con la moglie ad avere un figlio secondo procedure in Italia ancora illegali.
L’utero in affitto è così l’ombra di questa storia, ma è anche solo il punto di partenza. Quel che segue è infatti una fredda diapositiva su una paternità inaspettatamente desiderata.
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«Sin da giovane mi sono chiesto come sarebbe stata la mia vita se fossi diventato padre: cosa significa diventare padre, diventare genitori?», da quest’interrogativo prende forma la riflessione di Carlo Sironi, il quale sembra prendere a modello Il padre d’Italia (2017) di Fabio Mollo, con un Luca Marinelli che sognava un figlio invece ripudiato da Isabella Ragonesi, distaccandosene per regia e stile. Il centro a cui si torna è però sempre quello di sentimenti liberati dalle stringenti letture sociali. L’istinto materno si rivela fallace, quello paterno salvifico. Le strutture retoriche cadono e il racconto cerca l’universalità.
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La società entra a fatica in questa storia di individui isolati da ogni dimensione. Privati di sfondi e abbandonati in spazi vuoti. Unica luce è quella della slot machine, l’ennesima beffa di una vita dettata dalla (s)fortuna.
Il freddo dell’immagine, la chiarezza del tema
Ermanno scopre di amare la figlia di Lena, lei di amare Ermanno. C’è l’inaspettato in queste emozioni la cui espressione appare spesso ingiustificata, poiché mai inserita in un preciso sviluppo del personaggio. Qui forse il più grande problema dell’opera di Sironi, il quale anestetizza a tal punto la narrazione da renderla piatta. Differente nell’inizio e nella fine solo per conclusioni il cui passaggio argomentativo sfugge.
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Si viaggia così su una corda che ripete se stessa all’infinito, senza che alcuni climax sposti i temi annunciati. Se ne esce quasi storditi, confusi sulla durata della pellicola e dubbiosi sul percorso proposto. Nonostante ci siano gli spunti per trascinare con successo lo spettatore in un mondo che è il nostro, seppur più freddo e immobile.
Incomunicabilità sostanziale
Sandra Drzymalska e Claudio Segaluscio dominano il film scontrandosi in un’incomunicabilità che è propria della produzione stessa. Lei, attrice professionista polacca, non conosce l’italiano e per il film ha imparato solo le battute che lancia con una forza che è forse misurata e parziale manifestazione di un’incomprensione del loro senso. Lui, ragazzo romano prestato al Ccinema, s’impone come monolito, quasi confuso con le pareti di sfondo da cui prende le distanze con respiri soppressi e sguardi profondamente persi nel vuoto.
Assieme sorreggono l’intero film, facendosi carico di immagini talmente prive di tridimensionalità da trovare vie di fuga nell’incavatura stanca degli occhi di lei, nei movimenti rigidi, e vani, di lui. Un insieme attoriale che esprime la ricerca di Sironi nei corpi, meglio che nelle parole. In aiuto anche un formato dell’immagine (1:1,33) che incornicia i volti, inquadrando in loro il centro di ogni discorso.
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Sironi sonda quindi il senso della propria ricerca in uno spazio costruito affinché sia impossibile distrarsi dal volto dei suoi due protagonisti, gelidi come l’ambiente circostante, ma non per questo incapaci di esprimere la sorpresa per sentimenti inaspettati. Purtroppo la riflessione non affonda davvero nel tema, rivelandosi maggiormente interessante per la scelta di un’asetticità che spinge l’immagine sino a una messa in scena diafana e muta.
Notevole però la scelta dello stile, lontano da facili coinvolgimenti e disposto a sacrificare un ritmo più serrato in favore di un’intimità audace.
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