A quasi trent’anni dall’uscita, arriva finalmente nei cinema italiani Cure, il capolavoro horror di Kiyoshi Kurosawa che figure come Martin Scorsese, Bong Joon-Ho ed Ari Aster hanno eletto a modello e indicato tra i loro film preferiti. La distribuzione di Cure nel nostro Paese è stata limitata per lungo tempo all’home video e al passaggio televisivo in format come Fuori Orario: ora che è meritatamente sul grande schermo (seppur in un numero ridotto di sale) approfondiamo insieme uno dei più importanti film giapponesi di sempre.
Cure e l’incubo collettivo del Giappone
Cure è considerato, insieme a Ringu, tra i pilastri del J-Horror, l’ondata di film dell’orrore nipponici a partire dagli anni Novanta che hanno incontrato grande successo (e talvolta remake, proprio come The Ring) anche in Occidente. Cure non è però influenzato da leggende del folklore, ma da tanto drammatici quanto reali fatti di cronaca: quello che si respira nel film, infatti, è il clima di un Giappone ancora profondamente scosso dagli attentati di Tokyo di appena due anni prima.
Nel marzo del 1995, la setta religiosa Shirinkyo provocò la morte di tredici persone nascondendo gas nervino nei cestini della metropolitana della capitale. La paura per un nemico mortale ed invisibile si traduce, nel film, in una serie di omicidi apparentemente inspiegabili, commessi da persone comuni che uccidono da un momento all’altro, ammettendo e ricordando nitidamente il crimine, ma totalmente ignare del motivo. L’unico filo conduttore è una X incisa sul corpo delle vittime: sta al detective Takabe – interpretato dal magistrale Koji Yakusho di Perfect Days – all’apparenza inflessibile ma con una vita privata travagliata e una moglie malata, seguire le tracce che sembrano condurre ad un misterioso giovane senza memoria, Mamiya (Masato Hagiwara).
Cure, il terrore silenzioso
Kurosawa ha citato Il silenzio degli innocenti e Seven tra le sue fonti d’ispirazione, e il film ha influenzato a sua volta un gran numero di thriller successivi, il cui più recente esempio è Longlegs (Oz Perkins, 2024). In Cure, però, non esistono serial killer con la museruola o il volto pallido, non c’è la teatralità di John Doe: i rei confessi sono lì, la domanda non è più chi ma perché, e a spaventare di più è proprio l’ordinarietà dei delitti.
Il mostro si mimetizza nella folla, le figure più insospettabili diventano all’improvviso carnefici e non c’è esaltazione della brutalità degli omicidi, ripresi senza particolari virtuosismi di macchina e con i soli rumori provocati a fare da raggelante colonna sonora. Tutti sono potenziali assassini, tutti potenziali vittime.
L’atmosfera quasi neo-noir di Cure è quindi estremamente angosciante e soffocante nella sua calma apparente. Il disilluso detective si aggira in una Tokyo decadente, fumosa e grigia, accentuata dalla fotografia spenta e dall’assenza quasi totale di musiche, mentre la storia si dipana dinanzi allo spettatore con le frequenti carrellate laterali che accompagnano Takabe. Ecco quindi che, negli interni cupi e opprimenti, oggetti quotidiani e inoffensivi come una sigaretta, un accendino o un bicchiere d’acqua diventano le armi più pericolose.
Una particolare sfida tra gatto e topo
Il detective Takade è tanto impenetrabile al lavoro quanto provato dalla sua vita personale, due lati che cerca di mantenere totalmente separati a compartimenti stagni. I due mondi iniziano, però, inevitabilmente a collidere e la sua frustrazione emerge sempre più, quando trovare la mano dietro agli omicidi diventa come cercare di afferrare il vento a mani nude. Ecco perché entrare in contatto col giovane Mamiya porta l’uno a scavare nel profondo dell’altro: un ragazzo così ordinario ma che non ricorda neanche il proprio nome, con quell’aria costantemente sospesa tra l’assente e l’infastidito e che si aggira quasi scocciato nei corridoi degli ospedali e delle stazioni di polizia.
L’assenza di rimorso e il genuino disinteresse per le sue azioni rendono il giovane estremamente inquietante, portando alla luce tematiche come la manipolazione delle masse ad opera del culto che colpì Tokyo. Proprio come le folle si possono manipolare toccando le corde giuste, parlando alla pancia, proprio come una setta plagia nuovi membri con facili promesse, così questi assassini improvvisati cedono ai propri istinti più reconditi che vengono aizzati e incanalati: rancori passati, dissapori, invidie, insoddisfazione.
Nel tentativo di arrivare alla testa del serpente, Takade perderà la propria umanità pezzo dopo pezzo, precipitando in una spirale per la quale è forse proprio il più vulnerabile di tutti.
Cure è diventato col tempo un cult imperdibile per gli amanti dell’horror e del cinema nipponico: una lezione di cinema di un maestro come Kiyoshi Kurosawa, su come spesso, per spaventare, non servano jumpscare, fantasmi o killer cruenti, quanto stanare nell’animo umano il male più silenzioso e invisibile, che porti lo spettatore a guardarsi davvero allo specchio.
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