Con il suo Dune – Parte Uno del 2021, Denis Villeneuve è riuscito a riportare con successo sul grande schermo il monumentale universo nato dalla penna di Frank Herbert, dove molti prima avevano fallito: primo fra tutti nientemeno che David Lynch. Il suo Dune del 1984 è infatti tra le sue opere meno riuscite e apprezzate, che però col tempo si è conquistato una nicchia di appassionati.
Ora che l’attesissima Parte Due è ormai alle porte, facciamo quindi un passo indietro: cos’è rimasto, dopo quarant’anni, di una delle pellicole più difficoltose del regista del Montana, da lui stesso ripudiata?
Dune non è di facile adattamento
Partiamo da questa doverosa premessa. I fan del romanzo lo sanno bene: Frank Herbert ha creato negli anni ’60 una pietra miliare della fantascienza moderna (lo stesso George Lucas ha ammesso che senza Dune non avremmo avuto Star Wars), dalla mitologia enorme e affascinante, fatta di mondi e tempi lontani, di casate e intrighi politici, ma anche di visioni, di termini incomprensibili e potenti messaggi religiosi e anti-fanatismo. Dune non è una lettura semplice (dipanandosi poi la storia in svariati millenni raccontati in sei libri), figurarsi trasporla al cinema.
Già negli anni successivi all’uscita (1965) si registrarono diversi insuccessi: dalla morte di Arthur P. Jacobs (produttore de Il Pianeta delle Scimmie) poco dopo aver acquistato i diritti nel 1971, fino al rifiuto di Ridley Scott, passando per l’ormai mitologica versione mai realizzata di Alejandro Jodorowsky nel 1974, che avrebbe visto la partecipazione persino di Salvador Dalì e raccontata nel documentario Jodorowsky’s Dune (2013).
Quando ormai l’adattamento sembrava irrealizzabile, il produttore Dino De Laurentiis arruolò infine il giovane regista David Lynch, reduce dal successo di The Elephant Man (1980). A posteriori, sulla carta, la scelta era più che sensata: chi meglio di Lynch, l’autore per eccellenza del cinema onirico e labirintico, poteva rappresentare l’universo di Dune, così allucinogeno (non a caso, data la spezia elemento cardine della storia), oscuro e a tratti quasi anti-fantascientifico nell’essere ambientato nell’anno 10191, ma con tecnologie, ambienti e atmosfera così rétro.
Le vicissitudini produttive di Dune
David Lynch dirige un cast ricchissimo. Nei panni del protagonista Paul Atreides l’allora sconosciuto Kyle MacLachlan, che inaugura qui un proficuo sodalizio con Lynch proseguito poi con Velluto Blu (1986), I segreti di Twin Peaks (1990-91 e il revival del 2017) e Fuoco Cammina con Me (1992). Tra gli altri figurano nomi come Patrick Stewart (Gurney Halleck), Max von Sydow (Liet Kynes), Sean Young (Chani), Sting (Feyd-Rautha Harkonnen) e Francesca Annis (Lady Jessica), oltre a due volti che sarebbero poi tornati con MacLachlan in Twin Peaks: Everett McGill (Stilgar) e Jack Nance (capitano Nefud), anche lui attore feticcio di Lynch.
L’investimento fu imponente: 40 milioni di dollari, non pochi per l’epoca; nonostante ciò, il film andò incontro a un processo creativo travagliato. Il problema centrale, come anticipato, fu la natura stessa del materiale di partenza: era estremamente difficile condensare il primo libro di Dune in una sola pellicola, per temi e contenuti. Lynch vi riuscì con una durata iniziale di tre ore, versione che però andò incontro al veto dei De Laurentiis, che la giudicarono troppo lunga.
In fase di montaggio si andò così a eliminare quasi un’ora di girato: due ore e un quarto totali sono decisamente troppo poche per raccontare la storia di Dune in maniera esaustiva (si pensi che il solo Dune – Parte Uno è di 155 minuti). Nonostante alcuni tentativi degli anni successivi (una versione estesa da 189 minuti per la TV statunitense, talmente pessima nel montaggio da essere rinnegata da Lynch stesso, accreditato con lo pseudonimo Alan Smithee, e un’altra da 176), è stato proprio Lynch nel 2020 a negare l’esistenza di una vera e propria director’s cut, tagliando definitivamente i ponti con l’opera.
Le conseguenze si tradussero in un flop al botteghino – appena 31 milioni di dollari di incasso – e di critica, dalla quale il film fu sostanzialmente affossato.
Un film perso tra le sabbie di Arrakis
Il travaglio realizzativo è evidente nel risultato finale: il film è confuso, ingarbugliato e sbilanciato. La necessità di velocizzare portò all’inserimento di una nuova scena iniziale da documentario in cui la principessa Irulan Corrino (Virginia Madsen) introduce l’universo di Dune.
Tutta la prima parte del film è un continuo exposition dump: i personaggi si lanciano in spiegoni su spiegoni che appesantiscono gravemente la narrazione, sommati alla pessima scelta di Lynch di inserire il ridondante voiceover dei pensieri dei personaggi; commentando ogni avvenimento, privano lo spettatore della libertà di trarre le proprie conclusioni e distruggono la sacra regola show, don’t tell. È quantomeno curioso, per un regista il cui marchio di fabbrica è proprio l’opposto: il fornire meno spiegazioni possibili, lasciando gli spettatori persi a ricomporre i puzzle delle sue opere.
La seconda parte, al contrario, è drasticamente accelerata, in una serie di eventi che si susseguono senza avere il tempo di accumulare pathos e arrivando quindi a un finale praticamente senza climax. I legami coi nuovi personaggi, come Chani e Stilgar, e l’ascesa di Paul a Messia dei Fremen, sono così rapidi da risultare superficiali e quasi forzati, mentre alcuni vengono sbrigativamente sacrificati (vedi Duncan Idaho).
Non va meglio sul versante dei villain. Dell’oscura e minacciosa solennità della futura versione di Stellan Skarsgard non c’è traccia: il Barone Vladimir Harkonnen di Kenneth McMillan, per quanto più fedele al romanzo, è estremamente caricaturale e sopra le righe, non aiutato peraltro dal design del personaggio. Discorso simile per il Feyd-Rautha di Sting, che ha all’incirca tre battute totali e trascorre gran parte del tempo in sguardi stralunati.
Il fascino del deserto: Dune negli anni
A questo punto la situazione sembra critica. Allora com’è possibile che col tempo, Dune sia stato rivalutato, non certo fino a essere definito un cult, ma comunque generando una nutrita fetta di fan?
Non è certamente tutto da buttare. Dune ha un indubbio fascino: costumi, scenografie e fotografia sono curati nei minimi dettagli grazie al lavoro del due volte premio Oscar Freddie Francis (Figli e Amanti, Glory – Uomini di gloria). Francis e Lynch hanno creato un immaginario iconico, rendendo ogni fazione ben definita nella sua apparenza: dalle austere divise degli Atreides, nelle loro grandi sale barocche e nobiliari del pianeta Caladan, contrapposte a quelle bestiali e steampunk degli Harkonnen, che popolano invece stanze sporche e “industriali” sull’inquinato Giedi Primo, fino agli insediamenti sotterranei e polverosi dei Fremen, fieri e consumati abitanti del deserto.
Insieme al look psichedelico di molti personaggi (come lo stesso Feyd-Rautha), la retro-fantascienza di Herbert trova un’espressione centrata ed efficace.
Un altro contributo fondamentale fu quello dell’artista italiano Carlo Rambaldi, ideatore di E.T. e dello Xenomorfo di Alien. Il magnifico lavoro del maestro Rambaldi nella creazione dei giganteschi vermi delle sabbie di Arrakis e del design dei Navigatori della Gilda Spaziale è tra i maggiori pregi di Dune.
La colonna sonora dei Toto non sarà quella di Hans Zimmer, ma è comunque potente e ispirata, soprattutto nella battaglia finale.
In conclusione, che cosa dire quindi di Dune, a distanza di quattro decenni?
Si tratta di un’opera incompleta e caotica, e resta a maggior ragione il rimpianto per ciò che avrebbe potuto essere con una maggiore apertura da parte della produzione e accortezza ai dettagli di Lynch, che, se non altro, imparò dai propri errori per i suoi successivi lavori.
Nonostante ciò, rimane sicuramente affascinante e d’intrattenimento, assumendo lo status di guilty pleasure per chi cerca una versione alternativa e particolare rispetto a quella moderna, oltre ad avere il merito di aver lanciato la carriera di MacLachlan.
E poi, per quanto completo ed epico, il Dune di Villeneuve può vantare una scena con Patrick Stewart che carica in battaglia con un fucile in una mano e un carlino nell’altra?
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