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In the land of saints and sinners

In the land of saints and sinners, un western colorato di verde smeraldo

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6 minuti di lettura

In the land of saints and sinners è un perfetto particolato composito di generi e influssi culturali. Sarà il regista Robert Lorenz, classico figlio della migrazione economica che ha portato molti irlandesi a cercare fortuna negli Stati Uniti; sarà il forte legame culturale con salde radici religiose, una matrice fondamentale nell’iconografia Irish, e che quest’anno ha donato almeno altre due pellicole fondamentali (Creature di Dio e Il passero presentato all’Irish Film Festa del 2023). O, in parte, saranno entrambe le cose: un concreto attaccamento identitario alla propria terra, un necessario ritorno sui propri passi, unito alla Hollywood americana che ha reso Lorenz il regista che conosciamo.

E quindi: In the land of saints and sinners, in uscita il 12 ottobre dopo essere passato al Festival di Venezia di quest’anno nella categoria Orizzonti Extra, dove quella land inizia con l’Irlanda sconquassata dall’Ira negli anni ’70, per poi passare, in un racconto western contemporaneo, alla pastorale campagna celtica intaccata dalle logiche consumistiche.

In the land of saints and sinners, da inutile paese di provincia a selvaggio west

Santi e peccatori che si muovono in una cornice dall’identità dimenticata, deflagrata, nascosta, ignorata perché ritenuta inutile. Liam Neeson è uno di quelli, in un certo senso il riflesso della sua vita attoriale (passata per buona parte tra Stati Uniti e l’originaria Irlanda) e del regista stesso. Il suo personaggio, Finbar Murphy, conduce, in un’ordinaria tranquillità rurale, la propria vita nel paesino di Glen Colm Cille. La cittadina viene però sconvolta dall’arrivo di alcuni miliziani dell’Ira in fuga, guidati dalla spietata Doireann, dopo che un loro attacco terroristico ha lasciato dietro di sé una strage degli innocenti.

Doireann (Kerry Condon) e Finbar hanno una cosa in comune: entrambi fuggono. La prima, per ovvi motivi, e perché nel paesino in cui si è rifugiata con tutto il suo gruppo, vive un fratello selvaggio e anarchico quanto lei. Il secondo, per necessità e convenienza: infatti, Finbar non è altro che un sicario professionista, che per forza di cose deve proteggere la propria identità, almeno fino a quando i protagonisti della sua apparente umile vita, non sono minacciati proprio da Doireann e compagni di merende.

Liam Neeson, a cosa serve… Uccidere?

Come dicevamo, entrambi fuggono, o forse ritornano, in un certo senso, a una vita precedente. Finbar vuole difendere il paese, cacciare i miliziani dell’Ira, anche se questo porta con sé l’allontanamento dal proprio lavoro. Uccidere per Finbar è un processo industriale. Ha infatti un suo rito che si ripete costantemente vittima dopo vittima, come una catena di montaggio della morte. Anch’essa, una volta al cinema meccanica che azionava l’istinto dello spettatore, oggi è una pratica reiterata in un’alienante sistema di intrattenimento. Una perdizione, ma soprattutto un tradimento.

Al contrario di Padraic, protagonista de Gli spiriti dell’isola, che fa della sua presenza sull’isola lo sconvolgimento passionale degli equilibri conformati, Finbar rimane perché deve rispettare un onere, deve seguire l’impulso per proteggere il paese dalle ingerenze esterne. Robert Lorenz ha trovato così il suo Clint Eastwood, il suo protagonista pronto a sacrificare sé stesso in nome della giustizia.

Nella terra di smeraldo, circondata dallo sconfinato e vasto deserto blu dell’oceano Atlantico, trova invece il suo posto sicuro, l’àncora di salvezza in cui rifugiare le proprie certezze traballanti di un sistema, il quale da The lad from Old Ireland funziona, e che ora è messo in discussione.

In the land of saints and sinners, un nuovo cinema irlandese?

Film Delegation di In the land of saints and sinners. Credits: G. Zucchiatti

Un mondo globalizzato che infuria sulla pace e sulla tranquillità di una realtà purtroppo cancellata. Nelle isole temporali come Glen Colm Cille, dove il veloce traffico postmodernissimo raramente si sofferma, tutto accade: un paese vecchio, trapassato remoto, dove i cartelli recitano incisi in gaelico, diventa il protagonista della rivalsa culturale di un’intera identità popolare.

E difatti: “Succede sempre in paesi con i nomi impronunciabili” come ricorda meschinamente Doireann, donna di mondo proiettata come Finbar in un’ideale utopico devoto alla sacrosanta (o “sacracolpa”) globalizzazione. È “Una terra di profughi e santi”. Ha perso le sue origini, il suo spirito – evocato al massimo dalle macerie della confusa lotta per l’indipendenza – il suo cinema, addirittura, forse non è mai esistito. Ma sta (ri)nascendo oggi, si spera. Quegli stessi profughi, che i MCR ricordavano con nostalgia, hanno la voglia di tornare all’ovile, per riscattare ciò che gli appartiene più di tutti.


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Studente alla Statale di Milano ma cresciuto e formato a Lecco. Il suo luogo preferito è il Monte Resegone anche se non ci è mai andato. Ama i luoghi freddi e odia quelli caldi, ama però le persone calde e odia quelle fredde. Ripete almeno due volte al giorno "questo *inserire film* è la morte del cinema". Studia comunicazione ma in fondo sa che era meglio ingegneria.

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