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Collage dedicato a Claire Denis

Innamorati di Claire Denis: guida alla filmografia

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43 minuti di lettura

Quando in redazione si è pensato di dedicare un articolo a Claire Denis in vista del suo 79º compleanno, è stato immediato pensare di scrivere un “Innamorati di“. Le ragioni sono presto dette: parlando del cinema di una delle massime autrici contemporanee non si può che parlare d’amore, d’innamoramento. Il cinema di Claire Denis, infatti, è un cinema fatto di amore per l’immagine, ma anche per i corpi degli uomini. Dai suoi film trasuda un amore per l’esperienza umana sconfinato a tal punto che sente il bisogno di scavare con le immagini per cercarne la vera essenza, scoprirne tutti i suoi anfratti, anche quelli più oscuri e misteriosi.

Ma ci è parso subito intuitivo dedicarle una guida alla filmografia anche perché è un’autrice ancora troppo poco conosciuta al di fuori di una stretta cerchia cinefila incallita e appassionata o degli ambienti accademici, dove viene spesso studiata e analizzata. Autrice di un cinema sicuramente d’autore, magari non facile all’apparenza, Claire Denis è invece una delle indagatrici dell’animo umano più profonde e sincere, in grado di catturare col suo sguardo, lucido e lirico al tempo stesso, qualcosa che ognuno di noi ha vissuto nel corso della sua vita. Un modo di fare cinema unico, fatto di trasfigurazione ed erotismo, di carne e di intelletto, che sa stimolare la mente ma arrivare al cuore.

Proprio per questa sua capacità di indagare e cogliere l’animo umano anche gli aspetti più incomprensibili, più indicibili, pare a chi scrive che il cinema di Claire Denis merita di esser conosciuto, visto, approfondito più di quanto già non lo sia. In questa guida, si mettono in evidenza cinque dei suoi film più rilevanti, famosi, belli proprio per far in modo che vengano sempre più scoperti e apprezzati da nuove generazioni di cinefili.

Claire Denis

Il cinema delle ossessioni di Claire Denis: trasfigurazione, sensualità, colonialismo

Claire Denis, nata a Parigi il 21 aprile 1946, dopo un’infanzia passata tra l’Africa Centrale e la Francia si laurea a quella che oggi è nota come La Fémis, la più prestigiosa accademia di cinema in Francia. Prima di iniziare a dirigere ha passato diversi anni di apprendistato come assistente alla regia di alcuni dei più famosi registi della storia del cinema.

Tra le altre opere su cui ha lavorato troviamo Out 1 (Jacques Rivette, 1971), Hanna K. (Costa Gavras, 1983), ma soprattutto Paris, Texas e Il cielo sopra Berlino, capolavori rispettivamente del 1984 e 1987 del maestro tedesco Wim Wenders. Sarà proprio quest’ultimo a incoraggiarla a lavorare al suo lungometraggio d’esordio – Chocolat – sostenendo che “sarebbe stato uno spreco lasciarla continuare a lavorare come assistente alla regia“.

Wenders ci vede giusto: sin dal suo esordio, Denis dimostra una maturità rara nell’uso della macchina da presa. Maturità che non passa certo inosservata: viene acclamata e riconosciuta dalla critica, generando plauso e clamore per la stragrande maggioranza della sua produzione. La consacrazione definitiva, tuttavia, arriva nel 1999, quando al Festival di Venezia viene presentato Beau Travail. Il film impressionò molto la stampa e il pubblico, al punto che l’autrice venne riconosciuta come una delle più grandi autrici del panorama contemporaneo.

La fama e l’apprezzamento continuano tuttora, basti pensare che solo nel 2022 ha ottenuto il Premio alla Miglior Regia alla Berlinale per il suo Incroci Sentimentali e, nello stesso anno, ha vinto il Grand Prix al Festival di Cannes per il suo Stars At Noon. Denis è ancora un’autrice attivissima: proprio nello scorso febbraio, durante l’European Film Market a Berlino, è stato annunciato il suo prossimo progetto, The Soap Maker, remake di Gran Bollito di Mauro Bolognini, ispirato in parte alla storia della “saponificatrice di Correggio”.

Il cinema di Claire Denis è altamente riconoscibile, fatto di marche autoriali inconfondibili e personalissime. Ciò è possibile soprattutto in virtù della grande sensibilità e conoscenza che l’autrice dimostra di avere sull’immagine cinematografica, la sua natura e la sua costruzione. La caratteristica fondamentale delle immagini costruite da Denis è la loro ambiguità: esse sono, difatti, immagini che da un lato tendono verso la trasfigurazione del reale – cosa che permette all’autrice di operare con ciò che è in scena ragionamenti e costruzioni complesse, caricate di senso e di simbologia che le consentono una dimensione di riflessione e indagine continua -, dall’altro lato manifestano una concretezza, una solidità e una carnalità intrinseche nei soggetti che vengono inquadrati.

Claire Denis

Questa tensione tra trascendenza e carnalità risulta centrale in una delle grandi figure che attraversano il suo cinema: l’ossessione per il corpo. Nella costruzione delle immagini, Claire Denis pone infatti molta attenzione al modo in cui inquadra i corpi dei suoi attori e la loro posizione nello spazio: le opere dell’autrice parigina costruiscono nel loro complesso una geografia del corpo umano, del suo rapporto con lo spazio e con l’altro. Denis inquadra i suoi attori per coglierne la fisicità, la carnalità e la vitalità, tutti elementi palpabili agli spettatori dei suoi film, che sono quasi in grado di sentire gli odori che questi corpi emanano.

Questo interesse si traduce anche in una forte tensione verso il desiderio carnale, la passione e la libido, concetti ed elementi centrali del cinema di Claire Denis: proprio in questa dimensione schiettamente e impudicamente sessuale che trasuda dalle immagini e dai corpi visti dalla regista, risiede non solo parte della vitalità dei corpi stessi

Dall’altro lato, tuttavia, la presenza attoriale in scena si carica di significato anche in relazione alla sua posizione nello spazio, e questo permette dunque al corpo attoriale di trasfigurarsi, di divenire veicolo e simbolo di riflessioni più ampie. È possibile riscontrare ciò anche al modo in cui Denis dispone i corpi caucasici e i corpi neri all’interno di film come Chocolat, Beau Travail, White Material: una costruzione che permette alla regista di esplorare uno dei grandi temi che attraversano il suo cinema, vale a dire l’eredità colonialista di un Paese come la Francia.

La sola costruzione di immagini permette a Denis di scavare nei complessi rapporti tra colonizzatori e colonizzati, in un rapporto che pare ancora irrisolto e da sbrogliare anche al termine della Seconda Guerra Mondiale e non solo, con il processo di decolonizzazione pienamente attivato oramai. La tensione che emerge all’interno di queste dinamiche, poi, può essere ulteriormente contestualizzata in quella che è la dimensione tematica principale del suo cinema: l’analisi dell’animo umano, senza ignorare i suoi anfratti più oscuri.

Il cinema di Claire Denis, infatti, è un cinema che non ignora la violenza, la quale viene messa in scena senza enfatizzarne la dimensione più partecipata, ma anzi viene vista con uno sguardo più chirurgico, freddo, distaccato. La ricerca della regista, infatti, man mano che la maturità artistica diventa sempre più incipiente tende a spostarsi proprio sull’analisi di persone ambigue, quando non direttamente problematiche (High Life), che soffrono di psicopatia o parafilia (Cannibal Love – Mangiata Viva), in un tentativo di approfondimento, di studio del comportamento umano quando questo si trova in condizioni – fisiche o psicologiche – estreme.

Tutto il suo cinema, in fondo, tende proprio a questo: ad un approccio umanistico, pure se rivolto verso figure lontane dai canoni della società civile; anzi, è proprio in queste figure, le cui pulsioni sono completamente liberate dalle costrizioni sociali, che Denis è in grado di cogliere un frangente di umanità completamente libero, seppur riveli uno degli antri più oscuri dell’animo umano.

Ma di questo, Denis non ha evidentemente paura: il suo è infatti un cinema coraggioso sia nell’esplorazione, sia nella forma. Un cinema che sa anche essere duro, con tendenze anti-narrative, ma in grado di essere particolarmente rivelatore e magnetico, grazie alla forza delle sue immagini, evocative ed erotiche al tempo stesso.

Da dove iniziare: Chocolat

Un'inquadratura tratta da Chocolat (1988) di Claire Denis

Anno: 1988
Durata: 105′
Interpreti: Giulia Boschi, Cécile Ducasse, Isaach De Bankolé, François Cluzet, Mireille Perrier, Didier Flamand

Al centro di Chocolat, l’esordio semi-autobiografico dell’autrice, vi è una giovane donna ritornata in Cameroon, terra dove ha trascorso un’infanzia in quanto figlia del governatore coloniale: un periodo della sua vita passato tra un padre spesso assente, una madre che mal sopporta il contesto africano e il giovane domestico autoctono, l’unico con cui riesce a stabilire un legame affettivo sincero.

Chocolat sin da subito si presenta come il film più personale di Claire Denis: la sua dimensione semi-autobiografica le permette di esplorare con viva partecipazione alcuni dei temi a lei più cari, quali l’identità e l’eredità coloniale della Francia.

La giovane protagonista, chiamata poco sottilmente France, infatti ricostruisce la propria giovinezza proprio alla ricerca vitale di un’identità che le appare molto difficile da cogliere, vista la sua infanzia – nata francese, cresciuta nell’Africa del Nord, isolata dal mondo francese ma servita e riverita da una popolazione che a malapena parla la sua lingua e che le appare, ai suoi occhi di bambina, diversa solo per il modo in cui sua mamma si rivolge a loro, carica di rabbia e di disprezzo.

Un'inquadratura tratta da Chocolat (Claire Demis, 1988)

La prima scena del film sintetizza in modo brillante il portato della riflessione di Chocolat: l’immagine di un uomo e un bambino neri completamente immersi nel mare e nella sabbia scura della spiaggia si oppone al dettaglio delle dita dei piedi della giovane protagonista, l’unica parte del suo corpo a contatto con la stessa sabbia. È proprio in questa incapacità di immergersi nella terra – o sabbia, in questo caso – che risiede tutto il dilemma e il problema identitario raccontato da Denis, espletato nel resto della pellicola dal rapporto tra la bambina France e il giovane domestico Protée, anch’egli, giovane africano al servizio dei padroni coloniali in grado di parlare la loro lingua, con un’identità rimessa in discussione.

All’interno dell’esordio, tuttavia, è possibile già riconoscere la grande sensibilità all’immagine e al suo portato simbolico tipico del cinema di Claire Denis: ogni scena, ogni inquadratura di Chocolat è costruita a livello estetico e spaziale per enfatizzare le differenze percepite dalla società occidentale tra europei e africani. Nel cinema di Denis tutto ciò che c’è in scena è fondamentale ed è carico di significato, e già in Chocolat si può notare questa forte tensione tra la carnalità degli attori e degli oggetti in scena e il loro portato poetico e simbolico all’interno della narrazione.

Oltre a ciò, il gusto per la costruzione anti-narrativa del cinema di Denis è qui già presente e marcato: la pellicola procede per suggestioni più che per narratività, con scene che si prendono il loro tempo per esaurire la loro carica emotiva e simbolica, il cui gusto risiede molto in una forma caricata di profonda sostanza e potenza evocativa. Un’opera, quindi, che non è sicuramente per tutti, ma al tempo stesso è davvero difficile pensare ad una pellicola più bella e immediata per iniziare a conoscere Claire Denis, un film capace di ipnotizzare e rimanere impresso per la grande consapevolezza che del cinema ha la sua autrice.

Per innamorarsi: Beau Travail

Un'immagine tratta da Beau Travail (Claire Denis, 1999)

Anno: 1999
Durata: 92′
Interpreti: Denis Lavant, Michel Subor, Grégoire Colin, Richard Courcet, Nicolas Duvauchelle

Unanimemente considerato il capolavoro di Claire Denis – addirittura nella top ten della famigerata lista di Sight and Sound dei migliori film della storia del cinema -, Beau Travail continua e completa i discorsi avviati da Chocolat in merito al corpo e al colonialismo, in una pellicola dai caratteri formalmente ineccepibili.

Beau Travail racconta dell’ex sergente Galoup (Denis Lavant) il quale, all’interno di un appartamento di Marsiglia, scrive su un quaderno le sue memorie della vita all’interno di una legione francese stabilita nel golfo della Tagiura. Questa comunità rappresenta per lui una vera e propria casa, almeno fino a quando non arriva Sentain (Grégoire Colin), giovane affascinante recluta che scombussola la vita di Galoup, generando un forte senso di gelosia e rabbia nell’uomo, che culminerà in una scelta estrema.

Un film quasi interamente al maschile, Beau Travail, nel quale Denis osserva con attenzione la vita all’interno di un contesto così fortemente connotato come maschile, virile. La camera indugia spesso sui corpi più o meno nudi, più o meno sudati delle giovani reclute come dello stesso Galoup; corpi su cui si consumano tutte le leggi non scritte della mascolinità fatta di prestanza fisica e sopportazione. Le lunghe scene di addestramento militare – realizzate sotto il sole o in palazzi diroccati e abbandonati, sotto gli sguardi attoniti degli abitanti autoctoni del paese – mettono in continuo risalto la tensione di corpi in azione, rigidi e massicci, di cui traspare una forza bruta e ostentata.

La dimensione della mascolinità esasperata da questi momenti di prestanza fisica rigida viene contestata da Claire Denis all’interno del film, in una deflagrazione e destrutturazione del maschile operata in modo sistematico e chirurgico. L’insistere su alcuni momenti di vita quotidiana dei soldati non particolarmente virili – il rito del lavaggio e dello stirare le proprie uniformi, per esempio – nonché il continuo confronto con le donne del posto, che vivono una vita più libera, meno rigida dei coloni sottolinea in maniera evidente la costruzione e la finzione della facciata machista e maschile portata avanti da Galoup e la sua legione.

Tale costruzione passa da regole non scritte, che concorrono a creare uno stile di vita tacitamente accordato dalla legione e fedelmente rispettato da tutti al suo interno: una vita improntata sui caratteri della forza, della dominazione (esibita più che reale), una vita che si confaccia a dei soldati, che dunque non lasci spazio al sentimento. È proprio in questa castrazione del sentimento che risiede parte della tragedia del personaggio di Lavant, il quale risulta inetto a vivere e a lasciarsi andare ai sentimenti che prova – lui stesso si definisce, all’interno del film, “incapace a vivere; incapace nella vita civile“.

Il sergente Galoup è nel film di Denis colui che più di tutti osserva questi codici non scritti di mascolinità esasperata, e questo è tradotto in modo evidente dalla recitazione di Levant: rigida, statica, che esaspera un corpo massiccio, quasi intoccabile. Galoup è il perfetto soldato, anche perché è incapace di esprimere e di vivere le proprie emozioni. Soprattutto se queste emozioni sono pulsioni omoerotiche nei confronti del suo capo, il comandante Bruno Forestier (Michel Subort). Denis suggerisce in modo implicito per quanto evidente l’attrazione che egli prova per il suo capo, che sarà la causa scatenante del dissidio e dell’antipatia verso Sentain.

Beau Travail (Claire Denis, 1999)

Quest’ultimo è un giovane troppo bello e fascinoso per passare inosservato, lo stesso Galoup se ne rende conto. E proprio per questo senso di gelosia che cova ma che non riesce a – o non sa – esprimere, a disfarsene, che finirà per superare i limiti, mettendo a rischio la vita di quest’ultimo. Evento, questo, che porterà l’uomo ad essere allontanato dall’unica vita che egli riesce a vivere, all’unico luogo in cui può essere accettato. Sarà proprio questa sua incapacità di vivere il sentimento, questa estrema rigidità alle regole della legione che lo porterà addirittura a considerare il suicidio, nel finale della pellicola.

In netto contrasto alla figura di Galoup, vi è Rahel (Marta Tafesse Kassa), giovane donna con cui occasionalmente si intrattiene lo stesso sergente. Giovane donna originaria della Tagiura, Denis all’interno del film la riprende intenta a svolgere liberamente una vita quotidiana regolare – dal vedere un tappeto al mercato fino ad andare a ballare nella piccola discoteca della città. La giovane donna balla libera e serena, che abbraccia completamente la vita e il proprio sentire, non rinunciando a parti della propria esperienza di vita. È questa, in sostanza, la differenza fondamentale tra lei e Galoup.

Questo rapporto, tuttavia, non pare connotare solo questa coppia di personaggi, ma sembra voler rappresentare sineddoticamente il rapporto tra i coloni e i colonizzati. Da un lato, una popolazione che vive nella propria terra, libera di celebrare e di vivere la propria vita secondo le proprie credenze che non la castrano, ma anzi ne esaltano la vitalità; dall’altro lato, un gruppo di persone estranee e soggette ad una serie di codici non scritti che limitano l’esperienza di vita di loro stessi. Da un lato, un popolo vitale e sviluppato, dall’altro una realtà quasi primitiva e brutale per il modo in cui approccia il mondo.

Così facendo, Denis ribalta la tipica visione del cosiddetto Terzo Mondo, una realtà sociale che viene riconosciuta e validata per il suo essere autentica e matura, al confronto con l’importazione dell’Occidente che invece vive ancora di retaggi antichi e castranti. Un tentativo di risemantizzazione degli assi sociali e dello sviluppo sul finire del Novecento, in una lettura ardita e audace.

E allora, come sciogliere le complicate implicazioni della mascolinità di Galoup? Denis lo fa attraverso uno dei finali più potenti della storia del cinema: dopo aver suggerito la contemplazione del suicidio da parte del sergente, il film stacca sullo stesso, all’interno del night club, da solo. Lo vediamo per la prima volta lì, e compie un piccolo gesto rivoluzionario per lui: egli danza, sgraziato come solo chi non ha mai ballato in vita sua sa essere, ma è finalmente libero, sembra suggerirci Denis. Non tutto sembra perduto: il corpo danzante e pulsante di vita di Lavant sulle note di The Rythm of The Night di Corona restituisce un rilascio di tensione e sottotesti di rara potenza nel cinema contemporaneo.

Con questo gesto, Beau Travail sublima definitivamente la riflessione sulle tensioni corporee nel cinema di Claire Denis. Il film è il culmine artistico del lavoro della regista parigina, in cui convergono e trovano soluzione gran parte dei suoi snodi tematici; un’opera imprescindibile per parlare di corpo nel cinema contemporaneo, di maschile, ma anche la definitiva consacrazione di un talento visionario del cinema d’autore odierno. Beau Travail è un film oltremodo imperdibile.

Da riscoprire: Cannibal Love – Mangiata viva

Teouble every day (Claire Denis, 2001)

Anno: 2001
Durata: 101′
Interpreti: Vincent Gallo, Tricia Vessay, Béatrice Dalle, Alex Descas

Nel cinema di Claire Denis, la carne è tutto. L’autrice francese, come abbiamo già notato con Beau Travail, è ossessionata dal tema del corpo, dalla rappresentazione dell’erotismo, anche nelle sue forme più degeneri. Cannibal Love – Mangiata Viva – titolo originale: Trouble Every Day – esplora in maniera estesa proprio queste ossessioni dell’autrice.

Girato dopo Beau Travail – e proprio per questo, vittima in un certo senso del confronto con quest’ultimo -, il film racconta la storia di una giovane coppia statunitense (Vincent Gallo lui, Tricia Vessay lei) che arriva a Parigi in viaggio di nozze; lui, ricercatore statunitense, sembra in realtà più interessato a conoscere un certo dottor Léo (Alex Descas) a causa del suo problema: ha continue fantasie di cannibalismo, fantasie che d’intrecciano a un fortissimo piacere erotico da lui provato. Proprio per poter risolvere tale problema cerca il dottore, il quale convive con gli stessi impulsi vissuti da sua moglie (Béatrice Dalle), rinchiusa in casa proprio per evitare che possa assecondarli con estranei ignari.

Cannibal Love attinge a piene mani da archetipi e motivi letterari – dal più evidente legame di eros e thanatos, motivi di amore e morte intrecciati indissolubilmente tra loro, a quello forse meno evidente della madwoman in the attic, la donna pazza nell’attico, motivo esplorato dalle studiose di letteratura inglese Sandra Gilbert e Susan Gubar all’interno della letteratura vittoriana, nella quale le autrici donne tendevano a una rappresentazione dicotomica del femminile: o angeli o mostri. La “madwoman” del titolo fa riferimento a Bertha Mason, la moglie di Rochester in Jane Eyre, una donna creola che impazzisce e per questo viene confinata, appunto, nell’attico della tenuta di Mr Rochester.

Tali richiami alla letteratura vengono ripresi da Denis per costruire una narrazione che esplora in modo evidente i temi della carne, del corpo e del desiderio, estremizzati fino al limite. L’autrice s’interroga sulle fantasie erotiche più recondite, più estreme vissute dall’essere umano – fino addirittura al cannibalismo -, questionandone appunto i limiti. Lungi dall’essere un film di genere (dimenticatevi pure il cinema di Deodato e l’amore teen di Bones and All), Cannibal Love è un puro film di Claire Denis, fatto di un minimalismo di personaggi e di elementi narrativi, una costruzione complessa e stratificata dell’immagine, un ritmo rallentato in funzione di un atteggiamento riflessivo e meditativo.

Un'immagine tratta da Cannibal Love - Mangiata Viva (Claire Denis, 2001)

Il film rivela, però, il carattere più feroce dei personaggi della sua autrice: dove in Beau Travail vediamo persone incapaci di esprimere le proprie pulsioni erotiche, Cannibal Love – che, evidentemente, di amore non parla, quanto piuttosto è incentrato sul sesso – mostra invece quando quegli stessi personaggi vivono in modo spudorato e senza inibizioni le loro pulsioni più recondite e violente.

Da un lato il dottor Brown, che lotta contro se stesso per reprimere tali pulsioni; dall’altro la moglie del dottor Léo, che invece abbraccia in modo più aperto questa sua parafilia che il marito cerca di frenare. Entrambi, sia pure molto diversi – lui viene presentato come un uomo distinto e perbene, lei in condizioni più “selvagge”, di incuria – sono profondamente consapevoli di quanto questa loro tendenza sia pericolosa, violenta, aberrante, ma non possono fare a meno di assecondarla.

L’esplorazione di questa parafilia da parte di Denis si concretizza nell’indagine delle pulsioni più violente dell’essere umano, intrecciate a doppio filo con il desiderio, a sottolineare il profondo legame che intercorre tra l’amare qualcosa e il volerla distruggere: il corpo, in entrambi i casi, è centrale, fondamentale. Ed è proprio su quest’ultimo che la macchina da presa si focalizza, in inquadrature strette, dettagli di pezzi di carne che vengono guardati, amati, consumati.

Lo sguardo di Denis, tuttavia, non è mai sessualizzante: osserva con la dovuta distanza, quasi chirurgica, i corpi dei suoi personaggi. È proprio in questa distanza, che nei momenti più feroci risulta quasi destabilizzante, che persiste e indugia l’intellettualismo della macchina dell’autrice, la cui osservazione si risolve sempre in una contemplazione continua che guarda alla e oltre la matericità, la carnalità dei corpi in scena: una trasfigurazione poetica continua, quella di Denis, che tuttavia non rinuncia alla centralità del corpo, al piacere di guardarlo.

Sicuramente uno dei titoli meno frequentati di Claire Denis, Cannibal Love invece è una delle pellicole più illuminanti sul cinema dell’autrice, in grado di dialogare con altri suoi lavori e di sollevare in modo evidente alcuni dei temi e delle pratiche del suo cinema. Un film che nella sua ferocia – non solo grafica di scene di violenza, ma anche per la risoluzione delle vicende narrate – è in grado di esplorare alcuni degli antri più oscuri delle pulsioni e del desiderio umani. Un compendio, insomma, di gran parte della poetica di Claire Denis.

Per una fantascienza lo-fi ed erotica: High Life

Un'immagine tratta da High Life - Bella Vita (Claire Denis, 2019)

Anno: 2018
Durata: 110′
Interpreti: Robert Pattinson, Juliette Binoche, Mia Goth, André Benjamin, Scarlet Lindsey

Di tutti i film di Claire Denis, High Life è sicuramente uno dei più complessi e stratificati, in quanto è forse uno dei film più ermetici dell’autrice francese – lei stessa in un’intervista dichiara di non aver capito di cosa parla.

L’opera del 2018 – cui abbiamo già dedicato un approfondimento -, considerata da molti una delle vette del cinema denisiano, articola infatti al suo interno una serie di immagini, suggestioni, simboli e richiami intricati e intrecciati tra loro, che ad uno spettatore più casual possono apparire troppo complessi (quando non direttamente ridicoli in alcune delle loro manifestazioni). Eppure, proprio per questa costruzione così articolata, il film è una delle opere non solo più imperdibili del corpus di Denis, ma anche una delle più soddisfacenti da guardare e da esperire.

Al centro di High Life vi è Monte (Robert Pattinson), il solo sopravvissuto all’interno di un’astronave che vaga libera nella galassia; a fargli compagnia, vi è solo sua figlia neonata. Fin da subito, capiamo che Monte non era il solo membro dell’equipaggio: all’interno dell’astronave, infatti, vi erano persone in carcere per crimini gravissimi, le quali vengono spedite nello spazio per compiere esperimenti – o almeno, così viene detto loro. In realtà, scontano così la loro pena: lanciati nello spazio e dimenticati dalla Terra, completamente scollegati dal pianeta madre, forzati a una damnatio memoriae che li cancella completamente dal Pianeta.

Nell’astronave, tuttavia, una misteriosa dottoressa (Juliette Binoche, che ha collaborato con Denis anche in L’amore secondo Isabelle – vedi a seguire – e in Incroci Sentimentali, uno dei suoi film più recenti) conduce esperimenti moralmente ed eticamente discutibili con un solo obiettivo: riuscire a generare nuova vita nell’astronave.

Sin dalla breve e incompleta sinossi qui riportata è possibile notare un taglio potenzialmente distopico – o comunque, di carattere moraleggiante – che High Life può manifestare, in linea anche col genere fantascientifico che spesso utilizza mondi lontani per parlare di argomenti molto attuali. Il tema del confinamento forzato, delle carceri e della violenza emergono in modo evidente all’interno della pellicola, è vero, eppure sembra che Denis non sia particolarmente interessata a tali aspetti, quanto piuttosto all’analisi psicologica di individui costretti a vivere in tale stato di cattività.

All’interno dell’astronave – rappresentata come un grande blocco nero che fluttua nello spazio – vere e proprie celle di contenimento (con tanto di porte fatte di sbarre) ospitano criminali, psicopatici lasciati a piede libero, a gestire un microcosmo in cui la violenza regna sovrana: violenze sessuali e psicologiche, oltre che fisiche, regolano i rapporti all’interno dell’astronave. Una violenza che, però, fa il paio con l’immagine della bambina, simbolo di innocenza e purezza, sia pur nata all’interno di un tale coacervo di violenze.

High Life (Claire Denis, 2018)

Quando vi è in scena l’una – la violenza – non vi è in scena l’altra – la bambina -, in un gioco di suggestioni e di antinomie legati alla dualità dell’essere umano, alla trazione tra i poli del bene e del male che Monte stesso, figura quasi ascetica, paragonabile a un monaco, si trova a dover vivere e fronteggiare. Il suo passato violento trova una sorta di perversa redenzione in Willow, la sua figlia neonata che cresce da solo nello spazio più profondo. Una neonata cresciuta nella totalità del vuoto cosmico, una luce di speranza in un’umanità desolante e violenta – come cantava il poeta, “Dai diamanti non nasce niente / Dal letame nascono i fior“.

Ciò che lega le due linee temporali – quella precedente e successiva alla nascita di Willow – è, ovviamente, l’ossessione per il corpo. Fluidi corporei di varia natura e specie infestano e impregnano la pellicola, che prosegue e amplia il discorso sulla sessualità deviata avviato in Cannibal Love – Mangiata Viva. Anche qui, infatti, la sessualità viene mostrata nei suoi lati più perversi e oscuri – i rapporti sessuali in questa pellicola non sono mai consenzienti, manifestano sempre un lato di violenza -; tale tensione all’accoppiamento, tuttavia, è sempre volta a uno scopo riproduttivo, come simboleggia la dottoressa Dibs che cerca di inseminare le sue compagne di viaggio.

Non una sessualità fine a sé stessa, dunque, ma una violenza che si tramanda per generare qualcosa di buono, per redimere i mali stessi che l’umanità porta con sé. In questa visione disperata e angosciosa di Denis dell’umanità, la figura di Willow – bambina e poi ragazza – rappresentano l’ultimo barlume di speranza prima che l’umanità incontri la sua inevitabile fine – in una scena finale da mozzare il fiato.

Il microcosmo dell’astronave al centro di High Life viene ripreso da Claire Denis con inquadrature che insistono continuamente sulla dimensione claustrofobica degli ambienti, in cui i corpi dei personaggi vengono costretti. È proprio in questa costrizione, però, che Denis riesce a cogliere tutte le sfaccettature e i lati dell’umana esperienza, sublimati dal corpo attoriale che la regista scruta con meticolosa attenzione. Corpi che soffrono, corpi che godono, che camminano e che vivono sono inquadrati con l’attenzione maniacale che caratterizza la regista, catalizzata sulla ricerca costante della verità dell’esperienza umana, con uno sguardo che non ha compromessi né moralità.

Corpo, desiderio, rapporto tra lo spazio e chi quello spazio ci abita: tutto nelle inquadrature di High Life richiama alla poetica e allo stile tipico dell’autrice, divenendone un tassello fondamentale della filmografia proprio per la capacità di sublimare con l’immagine temi che ritornano continuamente nel suo cinema, con una maturità finora non raggiunta. High Life è certamente un film che non fa compromessi con lo spettatore, ma proprio per questo rappresenta un’esperienza evocativa e trascendente come poche altre all’interno della produzione di Denis.

Per (non) capire l’amore e l’intimità: L’amore secondo Isabelle

Un'immagine tratta da L'amore secondo Isabelle (Claire Denis, 2017)

Anno: 2017
Durata: 94′
Interpreti: Juliette Binoche, Gérard Depardieu, Xavier Beauvois, Josiane Balasko, Nicolas Duvauchelle, Valeria Bruni Tedeschi

Figlio di una traduzione infelice – il titolo originale, di tenore ben diverso, è Un beau soleil intérieur, ovvero “Un bel sole interiore”, a dimostrazione del fatto che le opere di Denis son state particolarmente colpite dalle traduzioni creative dei titoli tipiche degli anni Duemila – L’amore secondo Isabelle è un film anomalo nella produzione di Claire Denis per la sua grande verbosità.

Adattamento di Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes, il film racconta la storia di Isabelle (Juliette Binoche), donna sulla quarantina che ha appena divorziato dall’ex marito e decide di continuare a cercare l’amore della sua vita, sicura di trovarlo prima o poi: nel mentre intrattiene numerosi rapporti e relazioni con vari uomini, ogni volta convinta di aver trovato l’uomo perfetto.

Se, come si è visto all’interno di questa guida, Claire Denis è molto abile nella costruzione di opere in cui è l’immagine a parlare, L’amore secondo Isabelle rappresenta un’evidente eccezione: il film infatti vive in maniera molto evidente dei suoi dialoghi, delle continue interazioni tra la sua dinamica e volubile protagonista e gli uomini con cui s’interfaccia. Interazioni, quelle scritte da Denis e la scrittrice Christine Angot, che vedono un continuo confronto della protagonista con uomini che incarnano aspetti sempre diversi della mascolinità – l’erotismo, la sensibilità, l’incapacità di definire i propri sentimenti e le relazioni che vuole, e via discorrendo.

Tale presenza importante dei dialoghi consente di creare un character study intrigante su una donna più matura fatta di desideri e bisogni che trova sempre più difficili da appagare e, al tempo stesso, di ripensare le relazioni contemporanee nell’ottica della difficoltà di costruire legami significativi in un mondo sempre più intellegibile al fondo. Sorretto da una regia in grado di accompagnare questi dialoghi, evocando gli stati emotivi più profondi della protagonista – come, ad esempio, nella scena in cui si inquadra un primo incontro erotico di Isabelle con un giovane attore (Nicolas Duvauchelle) fatto di grande euforia e romanticismo, seguito dall’immediata rottura della favola di un potenziale, nuovo rapporto tra i due.

Con L’amore secondo Isabelle Denis si affaccia nel mondo delle relazioni contemporanee (come, di recente, hanno fatto Dag Johan Haugerud e Sally Rooney), portando dietro un grande bagaglio di consapevolezze e figure di cui il suo cinema si è sempre ammantato, come il modo di raccontare e inquadrare il corpo maschile, indagato con sensualità e fascinazione. Il tutto, condito da uno sguardo deliziosamente pessimistico e dolceamaro sulla realtà e sulle relazioni contemporanee. Forse il suo film apparentemente più frivolo e leggero (vuoi anche per la discutibile traduzione del suo titolo), ma anche uno dei suoi più sorprendenti, a modo suo.


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Classe 2001, cinefilo a tempo pieno. Se si aprissero le persone, ci troveremmo dei paesaggi; se si aprisse lui, ci troveremmo un cinema. Ogni febbraio vorrebbe trasferirsi a Berlino, ogni maggio a Cannes, ogni settembre a Venezia; il resto dell'anno lo passa tra un film di Akerman, uno di Campion e uno di Wiseman.

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