Può esistere ancora un’idea di corpo dentro alla fiaba? Quale carne, deformata e scalpitante, si nasconde dietro e al di sotto le storie più famose che abbiamo imparato a memoria fin dalla nostra prima infanzia? The Ugly Stepsister, esordio nel lungometraggio della regista norvegese Emilie Blichfeldt, riscrive Cenerentola, la sabota in chiave horror per indagare quale bellezza oggi ancora aspiriamo a raccontarci come favola perfetta dal rassicurante lieto fine.
Dopo essere stato presentato in anteprima al Sundance e alla Berlinale, The Ugly Stepsister è arrivato nelle sale italiane dal 30 ottobre 2025 grazie a I Wonder Pictures.
The Ugly Stepsister o del ribaltamento della fiaba

In una corte indefinita di qualche secolo fa Elvira (Lea Myren) sogna a occhi aperti (più spesso sgranati e strabuzzati) il suo principe azzurro. Con la sua goffa andatura, l’aria trasognata e i boccoli ammosciati, è disposta a tutto pur di conquistarlo e competere con l’immagine ideale dell’incantevole sorellastra Agnes (Thea Sofie Loch Næss), perfino costruendo artificialmente la propria bellezza, attingendo ai rudimenti sgraziati della chirurgia dell’epoca.
The Ugly Stepsister racconta di una metamorfosi scabrosa del corpo, di una minuziosa operazione di rimodellamento artificioso in cui le cicatrici si trasformano in traboccanti canali di scolo. È Cenerentola evidentemente il fulcro narrativo essenziale di The Ugly Stepsister, e in particolare quella versione dei fratelli Grimm in cui le sorellastre della bella di famiglia si mozzavano pezzi di piedi per riuscire a calzare la piccola scarpetta dorata che avrebbe designato la futura sposa del principe.
Un dettaglio macabro e sconcertante che The Ugly Stepsister riprende fedelmente, e che poco c’entra con i fiocchi e i nastri di idilliaca giocosità disneyana che hanno rimpiazzato la tradizione a favore di sorellastre più docili e addolcite, non più «nere di cuore» come nell’adattamento del 1812, e che ben corrispondono a chi quei personaggi femminili li vuole tenere a bada a ogni costo.
Sono racconti popolari che hanno codificato l’immaginario infantile, abituando intere generazioni di bambine a vedere soltanto il brutto come contrario del bello, il parente semantico dal preciso correlato morale che non ce l’ha fatta a riemergere contro le acque della perfezione. In questo contesto dicotomico e netto, come scrive il sociologo Pierre Bourdieu, il femminile è diventato soltanto la negazione del maschile, la sua opposta strutturazione rovesciata e sottomessa per diritti e funzioni, «a misura di tutte le cose»1.
L’incanto del disgusto: da Basile a Shrek

The Ugly Stepsister recupera proprio quel controcampo umorale e carnale, dalla prospettiva del brutto, di una sorellastra esclusa e scartata, vicina per tanti versi ai toni nerissimi (e femminili) del canovaccio barocco di Cenerentola redatto dal nostro innovatore del popolare Giambattista Basile, che per la sua capacità di far incontrare il sublime con il volgare, Calvino definì come «il sogno d’un deforme Shakespeare partenopeo»2 (lì la protagonista, Zezolla, fin dall’incipit brutale uccideva la sua matrigna spezzandole il collo).
Lo schifo e il ripugnante si intersecano anche in The Ugly Stepsister in una sarcastica e sfacciata antifiaba non solo sull’apparente (e retorica) riscoperta della bellezza interiore (che rende taboo tutte le altre) ma che ridimensiona anche quella esteriore, riequilibrandone i canoni, i limiti, le possibilità performative e pedagogiche, a partire da un severissimo e vistoso collegio di bon ton nordico in cui Elvira e Agnes vengono formate, insieme alle altre, per essere impeccabili e ubbidienti ragazze da esposizione.
The Ugly Stepsister a La Bella e la Bestia preferisce infatti la seconda, imprevedibile creatura più ferina e animalesca, eroticamente libertaria come nel cinema voyeuristico di Walerian Borowczyk, e da sempre invece ingiustamente emarginata sotto il filtro di un impossibile riscatto d’immagine. Già Shrek, nel 2001, aveva ribaltato quella narrazione animativa disneyana, attraverso una riscrittura sozza e dissacrante degli archetipi classici, della loro estrema parodizzazione: la storia di un simpatico orco verde che legge i libri di fiabe e poi li usa come carta igienica prima di tirare lo sciacquone.
Dove la candida Cenerentola doveva tornare a casa entro la mezzanotte prima che lo sfarzo di vestiti e carrozze sontuose svanisse nel nulla, in Shrek è Fiona a trasformarsi in orchessa di notte per tornare a essere umana all’alba. Ma il bacio liberatorio che chiudeva il primo capitolo della saga coincideva proprio con quell’orco verde che rendeva permanente per Fiona la forma normalmente considerabile mostruosa, il lieto fine (im)perfetto capace di rompere l’incantesimo del bello, in cui «vivere per sempre orrendi e contenti»3.
Ossessioni di chirurgica bellezza

È un principio di bellezza ideale e invertito quello che anima l’eversiva e grottesca favola di The Ugly Stepsister, in cui alle bambole di carta e plastica che sono diventate oggi le moderne Barbie di ogni tipo e taglia si oppongono invece apparecchi ortodontici troppo stringenti, invasive placchette metalliche di contenzione nasale, scalpelli che battono violenti su tessuti visibilmente sani, parassiti vermiformi che si nutrono di grasso corporeo per rendere i fianchi più snelli e secchi.
Un business di biomateriali da impiantare con metodiche scultoree come lo sono tutt’ora, al tempo di una chirurgia estetica che non ha più un significato medico-psicologico (tornare a vedersi belli), ma che l’ha rimosso in funzione di uno più sociale (diventare più belli degli altri, per gli altri), assecondando una tirannia cosmetica, inseguendo un culto della perfezione che consenta di esserci sempre tra gli sguardi estranei, all’altezza della propria reputazione d’immagine (matematica, aurea, vitruviana).
David Cronenberg (a cui Emilie Blichfeldt si ispira in The Ugly Stepsister in maniera più che manifesta) lo affermava in modo lampante nel suo Crimes of the Future (2022): «la chirurgia è il nuovo sesso», la nuova carne erotica per un nuovo tempo sensoriale. Il padre fondatore del body horror cinematografico ha da sempre esplorato in questi termini il corpo mutaforme, spesso ulcerato e mutilato all’estremo fino a fondersi con tecnologia e arte, con il fine ultimo però di ricercare ancora una forma perversa e desiderante di piacere, un edonismo sporco e organico altrimenti impossibile altrove.

Ma oggi, nell’epoca virtuale e post-mediale in cui The Ugly Stepsister viene prodotto (non più solo profetizzata come in Videodrome ed eXistenZ), in una galassia infinita di immagini astratte e immateriali che prendono il nostro posto nel mondo, la carne è diventata lo scarto di ciò che è rimasto, la traccia negativa del nostro desiderio irrealizzabile, la facies clinica a riconferma sintomatica di un’ossessione tutta incorporea.
In The Ugly Stepsister non c’è infatti nulla di quel corpo cronenberghiano affamato di sensazioni e di contatto, il corpo contemporaneo raccontato da Emilie Blichfeldt cerca soltanto accettazione e riqualificazione sociale, sabotandosi dall’interno attraverso una forma medicalizzata feroce e sfigurante, in contrasto alla funzionalità fisiologica e anatomica dell’organismo con cui nasce. È la cultura, non la biologia, anche se distorta e deviata, a plasmare quel corpo, a fabbricarne la sembianza.4
Distruggersi dentro uno specchio
Nel nostro mondo narcisistico, in perenne messa in scena, bastano infatti pochi semplici mezzi (in Sick of myself era una semplice pastiglia ordinata nell’immediatezza del web) per bruciare le proprie fisionomie, cicatrizzare i propri tratti più ordinari, tornare al centro del proprio specchio ribaltando il proverbiale «servo delle mie brame» in un’immagine deforme ma finalmente protagonista tra i tanti riflessi secondari.
Così anche in The Ugly Stepsister il visus naturale viene perso e ricucito a mano con ago e filo in una maschera fittizia e nebulosa destinata a decadere più in fretta del corpo originario, nel (vano) tentativo di cambiarlo, per assottigliarlo e sostituirlo con quello di un altro («il mio corpo non è un corpo, è un ingombro di spazio» canta Angelina Mango nell’ultimo intimistico album caramé).

In fondo c’è un carattere profondamente recente non tanto nella bruttezza – che è stata affrontata tra molteplici interpretazioni fin dall’alba dei tempi (Umberto Eco ne ha fatto persino una sua enciclopedica storiografia5) – ma nel senso disturbante di prigionia che l’accompagna («La bellezza è dolore» annuncia in The Ugly Stepsister un vecchio manifesto liberty affisso nella sala operatoria a mo’ di slogan pubblicitario).
Come suggerisce infatti la filosofa Maura Gancitano, riprendendo le tesi di Naomi Wolf sul tema (suo è lo straordinario The Beauty Myth, 1990), nel tempo si sono progressivamente imposte per le donne nuove coercizioni simboliche e ideali, ereditabili, di «corpi giusti» e allineati più che belli e affascinanti, e di altri all’opposto sempre un passo indietro, a dipendere dagli altri, da una società capitalistica che ancora oggi nelle grandi catene di abbigliamento riduce vite e taglie e nella pratica medica quotidiana patologizza quella bruttezza con l’unico fine di curarla6.
Anche la corte di The Ugly Stepsister (non distante per moti e ribellioni dai raffinati anacronismi pop di Marie Antoinette di Sofia Coppola – permane qui la stessa gabbia dorata dalla grande ricercatezza sartoriale ma più libidinosa e perturbante) si crogiola così in pubblico in lussuosi spettacoli di addomesticamento femminile e poi, di riflesso, nel suo specchio, pullula in famiglia di banchetti abbondanti con leccornie andate a male. Vermi e capelli impigliati, cadaveri senza sepoltura lasciati a marcire davanti ai reali, la toeletta imbalsamata insieme a spazzole e accessori ornamentali: un limite confuso tra bello e brutto che è anche la maledizione stregonesca dei giovani contemporanei, una natura morta e decomposta di corpi asciutti e tonificati tra cui scrollare.
Corpi umorali in rivolta pop

«Sono io, in questo corpo» diceva Fiona a Ciuchino in Shrek a rivelazione rassicurante di quella forma di orchessa che gli altri, la maggior parte, considerano invece ripugnante. La regista norvegese Emilie Blichfeldt, con The Ugly Stepsister all’esordio nel lungometraggio, attinge agli immaginari di genere anni ’60 e ’70 (l’estetica gotica e pratica, la musica che unisce sintetizzatori all’arpa), sfrutta l’estremo per farsi anche contenutisticamente esplicita, dichiarativa, quasi letterale (l’autore degli abbellimenti corporei su Elvira si chiama non a caso Dottor Esthétique), in un cinema dal lettering rosa fluo con incursioni sognanti e caricaturali che vuole sempre risultare sfacciatamente iper-contemporaneo.
L’intento di The Ugly Stepsister, almeno sulla carta, rimane infatti sempre quello sovversivo: riscrivere una fiaba secondo i canoni del body horror, di un beauty horror che dalla pressione lacerante della bellezza parta per riflettere con urgenza su quel corpo femminile – inquieto e metamorfico, disgustosamente incendiario verso la società e le sue asfissianti convenzioni.
L’Elisabeth Sparkle di The Substance, la star di Hollywood che ha ormai brillato di nome e di fatto, calpestata sulla Walk of Fame come un vecchio oggetto superato e così, come un elettrodomestico umano fuori tempo massimo, prontamente sostituito. Ma anche l’Alexia di Titane, donna-macchina ribelle che nel metallo e nel petrolio denso trova un amore inquinante più grande degli uomini. Corpi instabili e precari non più confinati al mero involucro biologico, ma che sgorgano e deflagrano al di fuori, in lotta, come dispositivi simbolici in continua trasformazione, recuperando il proprio diritto alla materialità, alla concretezza di una vita degna di essere vendicata.

Anche in The Ugly Stepsister, tra secrezioni e fluidi organici che costringono le donne a rendersi visibili, anche vicendevolmente, come soli oggetti estetici, rimane in senso metaforico quel «mostruoso femminile» di cui parla la femminista Jude Ellison Sady Doyle nel suo omonimo saggio. «Un mostro è un corpo che avrebbe dovuto essere sottomesso, ma che è diventato una smisurata minaccia: un mostro è una donna che si è sottratta al controllo (dell’uomo)»7.
È un mostruoso che non ha bisogno di magia e incantesimi fatati, ma di quello stesso corpo che abitualmente è stato messo sotto processo dallo sguardo maschile – infetto e predatorio – fino a compiacerlo e fagocitarlo del tutto persino in sua assenza (Bourdieu la chiama «violenza simbolica», perché «dolce, insensibile, invisibile»8). E se The Ugly Stepsister nelle sue deformità risulta ancora una fiaba, figuriamoci cosa significa essere mostruosi là fuori, nella vita vera, a marcire nello stesso istante in cui ci siamo visti allo specchio, diversi da noi stessi.
Seguici su Instagram, Facebook e Telegram per sapere sempre cosa guardare!
Non abbiamo grandi editori alle spalle. Gli unici nostri padroni sono i lettori. Sostieni la cultura giovane, libera e indipendente: iscriviti al FR Club!
- Pierre Bourdieu, Il dominio maschile, Feltrinelli, 2024, pp. 15, 23 ↩︎
- Italo Calvino, Fiabe italiane, Introduzione, Mondadori, 2023, p. VII ↩︎
- Danilo Petrassi, Shrekologia. La fiaba antifiaba, Mimesis, 2025 ↩︎
- per approfondire: Rossella Ghigi, Per piacere. Storia culturale della chirurgia estetica, Il Mulino, 2008, e Francesco Remotti, Fare umanità. I drammi dell’antropo-poiesi, Laterza, 2013 ↩︎
- Umberto Eco, Storia della bruttezza, Bompiani, 2007 ↩︎
- Maura Gancitano, Specchio delle mie brame, Einaudi, 2022 ↩︎
- Jude Ellison Sady Doyle, Il mostruoso femminile. Il patriarcato e la paura delle donne, Tlon, 2021, p. 19 ↩︎
- Pierre Bourdieu, op. cit., pp. 7-8 ↩︎
