Noi di NPC abbiamo avuto il piacere di vedere in anteprima Una notte a New York (titolo originale Daddio), che segna l’esordio alla regia di Christy Hall. Il film, nelle sale italiane dal 19 dicembre 2024, regala un dramma sagace, in cui il dialogo costante dei due protagonisti, interpretati da Dakota Johnson e Sean Penn, ancora lo sguardo dello spettatore allo schermo dall’inizio alla fine, facendogli esplorare i segreti e le fragilità dei personaggi. La nostra speranza è che Una notte a New York non passi di certo inosservato al box office. Ma andiamo con ordine.
Una notte a New York, un viaggio, un unico dialogo
L’opera prima della sceneggiatrice Christy Hall vede sullo schermo due personaggi che condividono un unico viaggio. Una giovane programmatrice, Dakota Johnson, appena atterrata al JFK Airport, prende un taxi per tornare a casa dopo un viaggio in Oklahoma, dove incontrerà il loquace tassista Clark, Sean Penn. Il tassista man mano esplorerà il passato della sua passeggera, in un costante dialogo che durerà per tutto il film, con un esito alquanto sorprendente.
Della trama di Una notte a New York c’è ben poco da dire, se non quanto appena scritto, proprio perché la storia verte sulla scoperta degli animi dei due personaggi, che avviene con un tempismo ben studiato e articolato. Il film in sé, che era nato come spettacolo teatrale, mantiene viva la matrice originale della messa in scena sul palcoscenico, ma al tempo stesso ricorda a noi spettatori di concentrarci esclusivamente sull’unico ambiente, il taxi di Clark, appunto, che costituisce una dimensione altra rispetto alle vite di entrambi i protagonisti.
Il non luogo diventa personaggio nel film di Christy Hall: rivela le debolezze dei caratteri di Clark e della giovane programmatrice, che saggiamente non rivelerà mai il proprio nome all’autista. L’anonimato della protagonista marca la separazione tra le due vite del passeggero e del conducente. Un limite che è un finto limite, radicalmente spezzato dopo i primi minuti del film.
In Una notte a New York, Dakota Johnson e Sean Penn non solo sono in stato di grazia e al completo servizio della sceneggiatura brillante di Hall, ma costituiscono insieme un unico personaggio dato dall’unione delle loro due vite, solo apparentemente distanti e anonime. L’origine teatrale dell’opera è più che evidente, ma mai pesante o sovrabbondante, con dialoghi che restano tutti funzionali alla storia che si vuole narrare allo spettatore. Prima di Una notte a New York, altre pellicole avevano dato modo al pubblico di intendere che talvolta non è necessaria una grande messa in scena, ma bastano un’unica location, una grande storia e un ottimo cast a forgiare un grande film.
Qualche esempio? Locke (2013) di Steven Knight con Tom Hardy, Carnage (2011) di Roman Polanski, o, ancor prima, La parola ai giurati (1957) di Sydney Lumet condividono di fondo tutti gli elementi citati sopra. È forse con Locke che è più facile il parallelismo con Una notte a New York, dal momento che entrambi i film sono ambientati per tutto il tempo all’interno di un veicolo e che entrambe le storie hanno come base i concetti del viaggio e del desiderio del personaggio di tornare a casa.
Eppure, le due opere sono differenti per tematiche, oltre che per la storia in sé che viene raccontata. Questo ci dà modo ancora una volta di riflettere sulla molteplice funzione della scelta di usare un’unica location, da cui poi possono nascere milioni di storie diverse.
Quando l’attore si mette al servizio della sceneggiatura
Spesso si commette l’errore di associare l’aggettivo “bravo” solo alla perfomance di un’attrice o di un attore, alle azioni che svolge in scena, alle trasformazioni, fisiche o non, che porta nella rappresentazione. Non si sottolinea invece mai quanto la bravura degli interpreti sia data dalla loro scelta di parlare o di tacere: l’importanza dei silenzi, degli sguardi, il peso delle parole.
È proprio in opere come Una notte a New York che l’attore ha l’opportunità di mostrare il proprio talento, poiché reggere un intero film con solo l’uso delle parole e dello sguardo è, anche se può non sembrare, veramente difficile. Il piano recitativo legato al mondo teatrale è molto formativo per l’attore che poi vuole approdare nell’industria cinematografica, proprio perché la tecnica espressiva associata alla tecnica teatrale diventa funzionale nel mondo del cinema.
È importante sottolineare, poi, come la psicologia dei due protagonisti rifletta appieno la verità del momento rappresentato. L’atto di prendere il taxi, del parlare con il conducente del più o del meno, o del vivere il viaggio come una sorta di seduta terapeutica, in cui il tassista esplora la nostra intimità, volente o nolente che sia, è oltremodo veritiero e tangibile per lo spettatore.
Non si avverte, nel corso della visione di Una notte a New York, quella sensazione di finto o di costruito, anzi, è proprio il contrario. Per quanto il tutto sia ovviamente romanzato e portato all’estremo, non lo si fa mai in modo esagerato. Il film non va fuori dal binario che si è prefissato, lo segue fino alla fine e invita lo spettatore a lasciarsi andare in questo viaggio all’interno della Grande Mela, che, se non per un paio di inquadrature del suo famoso skyline, non vediamo mai, poiché il focus è puntato all’interno del micro/mega mondo del taxi di Clark.
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