È l’attesa il tempo di Grazie ragazzi. L’attesa come stacco immobile verso momenti della vita in cambiamento, come spazio possibile di esplorazione, come perno transmediale tra rappresentazioni, dell’essenza stessa dell’attesa che le anima. Riccardo Milani, regista pratico di un cinema semplice e sempre rivolto verso il pubblico, attinge a un doppio materiale e lo rilascia a dosi innocue nel suo spaccato di marginalità e riabilitazione identitaria. La storia è quella vera di Jan Jönson, già narrativizzata da Emmanuel Courcol nel suo Un triomphe; ma lo sguardo è quello specifico di Milani, curioso verso le deformità di una realtà da cui si diverte ad estrapolare caratteri, volti e personalità ad alto contrasto differenziale.
Stemperato dalle tonalità chiare di una commedia accomodante, Grazie ragazzi s’intrufola tra le mura della Casa Circondariale di Velletri ed evade verso Samuel Beckett. Alto e basso convivono ancora, nel cinema del regista, nell’indagare in che misura l’arte possa interagire con la vita del singolo. Qui il singolo è quasi esclusivamente una coralità, condensata nell’agire di un gruppo di detenuti, un laboratorio teatrale e un attore inaridito dai fallimenti e l’autocommiserazione.
Grazie ragazzi è ciò che intercorre negli interstizi delle sei ore di corso che diventano settimane, mesi, teatri e una tournée in giro per l’Italia. È l’attesa, quella di Aspettando Godot, che si trasforma in materia prima di un film dagli angoli smussati e le istanze semplificate, dove il carcere è solo un pretesto per discutere d’altro e intavolare storie di universale umanità.
Grazie ragazzi, storie di esistenze recluse
Gli occhi gentili di Antonio Albanese danno accesso agli spazi stretti di un piccolo mondo inscatolato dentro puntuali giustapposizioni. Antonio è un uomo di mezz’età, sconfortato doppiatore di film porno e inquilino di un angusto appartamento recintato dall’aeroporto e la stazione di Ciampino. Grazie ragazzi lo profila spesso sulla soglia della finestra di casa, serrato nella morsa stretta di una quotidianità assopita di fronte al continuo movimento della realtà, tra aerei e treni, arrivi e partenze. Partecipiamo con tenerezza alla sua solitudine, accodandoci in silenzio ai viaggi che lo trascinano al lavoro e alle timide videochiamate con una figlia che vive in Canada.
Cucite insieme da un montaggio che ne registra similitudini e reclusioni vediamo le immagini del penitenziario in cui, sollecitato dall’amico Michele (Fabrizio Bentivoglio), Antonio ha da poco iniziato a insegnare recitazione. Aziz (Giacomo Ferrara), Damiano (Andrea Lattanzi), Mignolo (Giorgio Montanini), Radu (Bogdan Iordachiou), Christian (Gerhard Koloneci) prima e Diego (Vinicio Marchioni) poi, partecipano all’attività con spirito evasivo e incerta curiosità. Fino a quando quello spazio ricreativo non si trasforma in altro, mobilitando una speranza che si stufa della propria staticità.
È nel concentrato di quell’umanità che le resistenze di Antonio trovano pacificazione, riavvicinandolo alle radici della propria passione. Accartocciato in una foto appesa al muro, il passato riprende vita da un ricordo, dalla messa in scena del testo su cui Grazie ragazzi poggia ogni sua ramificazione: Aspettando Godot.
Da lì l’esistenza di questa atipica pluralità impara a rimettersi in gioco, incrociando ruoli e intersecando linguaggi: nel teatro di Michele e con la regia di Antonio il loro Aspettando Godot si stratifica di significati, ridefinendo identità, immaginando nuove opportunità e convertendosi in un successo da esportare increduli nei teatri italiani. Ma alla fine la realtà irrompe, nella sua grezza durezza, e srotola il dramma tra gli echi della commedia.
Grazie ragazzi, nei compromessi delle sue semplificazioni
Grazie ragazzi s’inserisce con coerenza all’interno di una filmografia da sempre votata al consenso del suo pubblico. Forgiata su esposizioni semplificate di argomentazioni complesse, sfoltita di vezzi e divulgatrice di una personale sincerità. Qui gli eccessi sono tutti sacrificati al servizio di una storia scandita in alternanza di sorrisi e riflessioni, priva di superflue insistenze drammatiche e addolcita da autentici slanci di partecipazione emotiva.
Tutto è chiaro, o altrimenti ci viene spiegato. Dalla corrispondenza dell’opera beckettiana con la condizione del presente dei detenuti, alla condanna come annichilente stato d’attesa e poi all’attesa come insperata volontà di miglioramento, fino alla compenetrazione trasformativa tra cultura e identità, dove il teatro diventa (come di consueto) terapia ma rimane anche (sempre) una questione pragmatica. Come lo è, in fin dei conti, tutto il cinema di Riccardo Milani.
Un cinema che con Grazie ragazzi glissa sulla ruvidità della questione sociale da cui prende spunto e si dirige altrove. Verso il racconto di un fiducioso percorso riabilitativo, che esplora il reinserimento attraverso la processualità della decostruzione di ruoli, gerarchie e identità criminali. Il tempo di Grazie ragazzi diviene allora quello delle prove, degli spettacoli, della ricerca personale e della collaborazione solidale: lì, a poco a poco, quell’idea del sé stabilizzata da una vita bloccata e dalle azioni del passato inizia ad evolvere verso la possibilità di una scelta, preparata ad accogliere tutte le sfumature lasciate in disparte, nascoste o recluse. Tanto per i detenuti, quanto per Antonio, l’arte si riscopre strumento di espressione e occasione di redenzione.
Tutto il resto, quando c’è, è lasciato indietro. Mai sconfessato ma costantemente sotteso da un’intonazione narrativa che fluidifica la materia più del dovuto, affidandosi senza resistenze a un ottimismo dal sapore favolistico e contrastato unicamente da un finale che torna a tendere alle rotondità del reale solo quando è ora di lasciarle andare. Con una suggestione, forse, ma fin troppa semplificazione per riuscire a rimanere impresso.
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