Ottobre: le giornate si accorciano, il sole cala e spuntano le zucche. Si sa, è il mese dell’orrore per antonomasia: in occasione, anche, dell’uscita del Dracula di Luc Besson e del Frankenstein di Guillermo Del Toro, vi accompagniamo verso Halloween riscoprendo i capostipiti del genere, i mostri classici della Universal.
Siamo finalmente arrivati, dopo aver rotto il ghiaccio con La Mummia ed aver proseguito con L’Uomo Lupo, a uno dei due fulcri di questo grande ciclo, il pezzo da novanta: Frankenstein di James Whale.
Il film che ha cementificato nell’immaginario popolare una delle creature più famose di sempre, il Mostro incompreso per eccellenza.
Frankenstein e Dracula, la nascita dell’horror moderno

Oggi la Universal è una delle maggiori major cinematografiche al mondo, ma all’inizio degli anni Trenta la situazione era molto diversa. I nomi dominanti erano quelli di MGM e Paramount, mentre la Universal si ritagliava spazio di nicchia in generi come l’horror, ancora fresco all’epoca e con pochi rappresentanti, come Nosferatu di Murnau. Un pubblico bisognoso di svago negli anni della Grande Depressione e le possibilità artistiche offerte dall’avvento del sonoro, unite all’ondata europea del cinema espressionista e gotico, fecero sì che l’horror trovasse il suo boom proprio in quegli anni.
Dopo il grande successo del Dracula con Bela Lugosi nel 1931, Universal fiutò l’occasione di cavalcare l’onda e mise in cantiere immediatamente nello stesso anno proprio l’adattamento del romanzo Frankenstein o il moderno Prometeo della scrittrice inglese Mary Shelley – pur prendendosi molte libertà rispetto ad esso e ispirandosi in larga parte al dramma teatrale del 1927: ebbe così inizio il primo vero universo cinematografico della storia, un franchise dedicato ai mostri (che oggi definiamo classici) che sarebbe durato per due decenni.
Inizialmente fu scelto il francoamericano Robert Florey per la regia, ma quando la sua visione artistica iniziò a discostarsi eccessivamente dallo spirito del romanzo, il produttore Carl Laemmle Jr lo sostituì con il britannico James Whale, da lui estremamente stimato e che tornerà anche per La Moglie di Frankenstein e L’Uomo Invisibile. È proprio nelle mani di Whale che Frankenstein diventerà un classico senza tempo, dando fama mondiale all’horror e incidendo nella cultura pop quelli che oggi sono arrivati ad essere dei cliché, come lo scienziato pazzo, l’aiutante gobbo e soprattutto l’aspetto della Creatura.
Boris Karloff, l’unico e solo Frankenstein
Quando si parla della Creatura frutto degli esperimenti di Victor Frankenstein (qui rinominato Henry per avvicinarlo al pubblico statunitense), un’immagine ben precisa balza subito in mente: la stessa, inalterata, da quasi cento anni in cinema, televisione, cartoni animati e costumi di Halloween.
Se si pensa a Dracula, ad esempio, diversi sono i volti che ne hanno ridefinito l’aspetto e incarnato l’essenza negli anni dopo Bela Lugosi, da Christopher Lee a Gary Oldman, impattando ognuno sulla propria generazione. Per la Creatura di Frankenstein no: nessuna delle tante pellicole che si sono susseguite negli anni, tra sequel, parodie e remake (compresi nomi come Robert De Niro), è riuscita a scalfire minimamente l’impronta ufficiale lasciata da Boris Karloff.

Inizialmente la produzione contattò proprio Lugosi, già volto di punta di Universal, che fece un provino con trucco e 20 minuti di riprese di prova: la reticenza dell’attore ungherese a lavorare con una maschera così ingombrante, però, aprì la strada al casting di Karloff. L’attore britannico s’impadronì immediatamente del ruolo, grazie alla sua dominante presenza scenica e aiutato dal make up eccezionale di Jack Pierce, l’uomo dietro l’aspetto di Dracula, la Mummia, l’Uomo Lupo e l’uomo invisibile e che lo rese un’icona senza tempo.
Il lato più importante della Creatura non è però solamente fisico. Karloff dà vita a quello che è il primo vero mostro tragico della storia, un tema che si sarebbe susseguito nel ciclo Universal e che egli stesso avrebbe ritrovato l’anno successivo ne La Mummia: la Creatura non è che un bambino in un corpo enorme, impacciato, che con le braccia protese e l’incedere lento cerca di farsi strada con curiosità e che si trova a subire immediatamente la crudeltà del mondo che lo circonda.
Per terrore del suo aspetto o per insita malvagità, la Creatura viene emarginata, allontanata, ripudiata dal proprio creatore e maltrattata dall’aiutante gobbo Fritz. Gli omicidi che compie – Fritz e il dottor Waldman – sono dettati dalla paura di un essere in gabbia, o dalla sua ingenuità: il breve momento di pace che trova con la piccola Maria si trasforma in tragedia, quando la getta in acqua ignaro delle conseguenze. I movimenti maldestri di Karloff, le sue grida spaventate, le ingiustizie ricevute riflesse nei suoi occhi scavati e nei duri lineamenti suscitano molta più empatia che paura nei confronti del “mostro”, succube dell’hybris del proprio creatore.

Frankenstein non passa mai di moda
Frankenstein, pur a novant’anni suonati, resta incredibilmente attuale per fattura. L’espressionismo tedesco, e in particolare Il Gabinetto del dottor Caligari (1920), hanno vibratamente influenzato la messa in scena di Frankenstein: estremamente gotica, fatta di imponenti scenografie verticali, come il laboratorio di Henry, vivo e caotico, di ombre marcate date dal forte contrasto con la luce ed di un ritmo molto più moderno di quanto si possa pensare: elementi che contribuiscono a rendere Frankenstein ancora contemporaneo nel 2025.
Ancor più della realizzazione influiscono i significati. James Whale era un ex prigioniero di guerra omosessuale, in un’epoca estremamente repressiva: fu fondamentale quindi la sua esperienza personale nel costruire in maniera toccante e umana la dinamica di persecuzione intorno alla Creatura, rendendo il vero villain la folla incapace di accettarne l’unicità.
Parallelamente, il film diventa espressione del complicato rapporto tra natura e scienza, che si mescolano in Henry Frankenstein (Colin Clive): uno scienziato che sfrutta le proprie conoscenze per trasformarsi in un Dio creatore – per sua stessa ammissione: Ora so cosa significa essere Dio!, battuta che rimase a lungo tagliata per le proteste dei gruppi religiosi – e che consuma la propria ambizione in estasi quasi religiosa, in un laboratorio che diventa un tempio pagano.

James Whale ha dato vita ad un’icona, uno dei simboli più duraturi della storia del cinema, che assieme al “cugino” Dracula non smette di affascinare autori e spettatori di generazione in generazione e che si dimostrò avanti anni luce rispetto ai suoi tempi, mascherando da film horror una tragedia sull’accettazione della diversità, e sulla crudeltà dell’uomo.
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