Saltburn copertina

Saltburn, attraente esperienzialità

8 minuti di lettura

L’aspettavano in molti, dopo il clamore discusso e controverso del precedente Una donna promettente. Emerald Fennell torna al lungometraggio e inietta in Saltburn una nuova dose di ossessione, che questa volta ha le sembianze del desiderio carnale, dell’arrivismo sociale, di un millimetrico gioco seduttivo che guarda alla ricchezza e ne deturpa le vanità, magnetizza l’erotismo e ne sfigura la bellezza.

Se scevri di informazioni sul film, Saltburn si presenta come una sinistra commedia sentimentale a sussurri queer, impigliata tra rassicuranti coordinate che flettono l’attenzione spettatoriale e intorpidita da una persuasiva illusione di quiete, sorpresa nella sua disattenzione nel momento stesso in cui la storia la trascina, goticamente, altrove. In quell’altrove esteticamente vintage e pop, Saltburn calca la mano sull’enfasi psicotica che travolge una tipologia di racconto di de-formazione ravvisabile dei suoi modelli. Ma la regista, quel degrado da black comedy, lo infarcisce ancora di esibita personalità, contaminando i linguaggi e addensando la plasticità dei corpi e degli spazi attorno a una forma, filmica, che trasuda l’intenzione di un cinema con un suo precisissimo marchio di fabbrica.

A proposito di clamore, Emerald Fennell è di nuovo qui per disturbare.

It was impossible not to love Felix

Jacob Elordi in Saltburn

Prendete Chiamami col tuo nome, la palpabile sensazione di attesa e rinvio del desiderio. Prendetene le consistenze, l’impressione di scottare sulle pelle la rotondità delle emozioni. Rovesciatene il romanticismo e sopraggiungerete a Saltburn. Saltburn è la tenuta della famiglia Catton, élite imbalsamata nell’anaffettività di una tradizione patinata di formalità e di cinica sensualità.  

Parliamo di quel tipo di sex appeal di cui Jacob Elordi è attualissima oggettificazione, qui intenerita e ammorbidita di virilità. La Fennell riparte proprio da lui, profilando sul suo corpo un lavoro stratificato, carico di simbolismi ibridati con i linguaggi mutuati da una viralità tutta contemporanea. Che irrompe in Saltburn con un montaggio romanticizzato e sessualizzato del corpo del ragazzo, infiocchettato come una fancam erede di un algoritmo TikTokiano e osservato voyeuristicamente con quel tipo di fantasia stimolata soltanto da ciò che non si può realmente avere, avvolto com’è da un’aura seducente di inappagabile desiderabilità.

Sul fronte opposto, quello che racchiude l’utenza, posiziona Oliver (Barry Keoghan). Ragazzo semplice, occhialuto e nient’affatto popolare, che sopraggiunge ad Oxford con una borsa di studio e sbrana di sguardi l’utopia irrefrenabile di appartenere a ciò che non ha. Non sorprendentemente, per la grammatica del genere, ad Oliver basterà poco per entrare nelle grazie di Felix (Jacob Elordi). Un gesto gentile, la condivisione empatica, una struggente storia familiare. Perché Felix non è solo bello: è un’anima dolce, apparentemente innocente, insistentemente generosa, facilitatore di quel carisma cui si è disposti a perdonare tutto. E del quale Emerald Fennell accentua volontariamente la bonarietà, impilando le intenzioni significanti nel baratro di un sottotesto di chiara direzione morale.

In superficie, invece, Felix e Oliver sono teneramente affiatati, complici, tanto intimi da convincere il rampollo dei Catton a invitare l’amico nella sua eccentrica Saltburn. Lì, dove nel focoso e sudato caldo estivo, si apriranno le macabre danze.

Barry Keoghan divora Saltburn

Il centro nevralgico della dimora è annidato alla corporeità di Felix e diradato con pari vistosità in ogni vizioso manierismo dei suoi familiari. Primeggiati da una madre (Rosamund Pike) allergica alla bruttezza e sagomati su contorni parossistici, tirati a lucido in avvenenti abiti da sera. Quella di Saltburn è una nevrosi che peregrina dissacrante attorno al potere insito nella ricchezza e nella bellezza, padroneggiato a capriccio e quasi senza intenzione da chi lo possiede come uno dei tanti privilegi.

La regista attinge all’inquietudine del Keoghan lanthimosiano de Il sacrificio del cervo sacro e piega il suo magnetismo interpretativo a favore della schizofrenia dell’enigma, mettendo in atto una famelica ludicità che si apre sul fanatismo del desiderio insaziato di Oliver e sfocia nel rispettivo riversamento, sgorgante a fiotti di sangue, sudore e fluidi corporei. Un’arte, quella della seduzione, che il giovane intruso impara a dominare, usandola a suo favore nel progressivo inabissamento di sessualità e prevaricazione.

Il patologico ibrido impersonificato da Barry Keoghan è un impasto corroso di violenza, sesso, morte e disfunzioni. Oliver si inserisce tra i Catton con spirito morboso, osservandone le convenzionalità e ingurgitandone le frivolezze. Così si mimetizza all’ambiente, anestetizzando qualsiasi emozione nel lento e scabroso processo di appropriazione corporea dell’anima della tenuta, profanata e risucchiata di tutta la sua lussuosa ed erotica vitalità.

La caricaturale compostezza famigliare deflagra al tocco parassitario di un giovane arrampicatore sociale, consumato dalle derive di un’assente reciprocità sentimentale. Cosa succede quando l’amore di un bravo ragazzo non viene ricambiato? A ben vedere, Saltburn rima con coerenza il precedente film della regista. Ottimizza la lente con cui pedinare le autenticità di tutti quei bravi ragazzi in cui si imbatteva la furia vendicativa di Una donna promettente. Ma lo fa con differente audacia visiva, moltiplicata dal gusto disturbante di inserti provocatori e immersivi per la sfida lanciata allo spettatore.

Saltburn è una visione esperienziale, stimolata sensorialmente tra fascino e repulsione e confinata, come i suoi inquilini, fra le mura della magione. Dove si abbuffa di spregiudicatezza, estremizzando il grottesco, semplificando il simbolico (siamo nel regime del doppio, del labirinto e delle marionette) e inchiodando lo spettatore all’obbligata osservazione della perversione di un sociopatico protagonista. Che è eccezionale, se ancora non si era capito, e divora il film.

La Fennell specchia l’edonismo degli interpreti nella purezza estetica di una texture scenografica palpitante, fuoriuscita dalle musiche e i look degli anni duemila e fotografata impeccabilmente dalla mano del premio Oscar Linus Sandgren. È inutile girarci intorno: Saltburn è, a tutti gli effetti, un film attraente. Ma se vi ha insegnato qualcosa, tenetevi in guardia dalle sue insidie.


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Laureata in Cinema e Comunicazione. Perennemente sedotta dalla necessità di espressione, comprensione e divulgazione di ogni forma comunicativa. Della realtà mi piace conoscere la mente, il modo in cui osserva e racconta le sue relazioni umane. Del cinema mi piace l’ascolto della sua sincerità, riflesso enfatico di tutte le menti che lo creano. Di entrambi coltivo l’empatia, la lente con cui vivere e crescere nelle sensibilità ed esperienze degli altri

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