EDDINGTON COPERTINA

Eddington, la nevrosi della collettività per Ari Aster

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14 minuti di lettura

A distanza di due anni dal precedente (e folle) Beau Ha Paura, Ari Aster torna nelle nostre sale con il suo Eddington, film controverso che ha diviso critica e pubblico: un’opera ricca di tematiche, spunti di riflessioni e squarci che gettano luce sulle ipocrisie e le contraddizioni del nostro presente.

Eddington, l’asfissia del giudizio degli altri

Maggio 2020, New Mexico. Nel mezzo del deserto, la cittadina di Eddington si ritrova a fare i conti con le nuove disposizioni sanitarie imposte dalla pandemia di COVID-19, che hanno radicalmente modificato le abitudini e la quotidianità dei cittadini. Incapace di accettare il nuovo presente, lo sceriffo Joe Cross (Joaquin Phoenix) si scontra duramente con una parte della comunità rappresentata dal sindaco Ted Garcia (Pedro Pascal), politico dalle idee progressiste che mira a favorire lo sviluppo tecnologico della cittadina con la creazione di un nuovo magazzino di server per stoccaggio dati.

La tensione tra i due sfocerà nella candidatura di Joe a nuovo sindaco con l’intento di sfidare il rivale e le sue idee, innescando così un processo che, scosso dai movimenti di protesta esplosi in tutto il Paese legati al movimento Black Lives Matter, porterà inevitabilmente a creare una crepa nel tessuto sociale della stessa Eddington.

Divisivo e controverso, Eddington è un film che si allontana radicalmente dalle precedenti opere del regista. Aster, come sempre, osa e decide di abbandonare la narrativa introspettiva e psicologica che caratterizzava i suoi lavori precedenti per rivolgere lo sguardo al nostro presente e al mondo in cui viviamo. Con Eddington offre un trattato socio-antropologico sulla nostra quotidianità, dominata da internet e smartphone.

Maggio 2020, New Mexico. Nel mezzo del deserto, la cittadina di Eddington si ritrova a fare i conti con le nuove disposizioni sanitarie imposte dalla pandemia di COVID-19, che hanno radicalmente modificato le abitudini e la quotidianità dei cittadini. Incapace di accettare il nuovo presente, lo sceriffo Joe Cross (Joaquin Phoenix) si scontra duramente con una parte della comunità rappresentata dal sindaco Ted Garcia (Pedro Pascal), politico dalle idee progressiste che mira a favorire lo sviluppo tecnologico della cittadina con la creazione di un nuovo magazzino di server per stoccaggio dati.

Se in Hereditary e Beau Ha Paura Aster costruiva personalità su archetipi (principalmente familiari) destinati a seguire un destino tragico e preimpostato, in Eddington i personaggi perdono progressivamente la loro individualità per trasformarsi in semplici stereotipi, definiti non da ciò che sono ma dallo sguardo che gli altri rivolgono loro. Con questo meccanismo, il regista critica la nostra tendenza (alimentata dalle dinamiche digitali) a giudicare il prossimo per ciò che rappresenta piuttosto che per la sua vera personalità. Una tendenza capitalistica, che spinge tutti noi a categorizzare le persone per poterle inscatolare e posizionarle su scaffali con etichette ben precise.

Gli occhi e gli obiettivi fotografici degli altri diventano benzina sul fuoco della nevrosi individuale inserita nella socialità. Questa pressione costante genera nel protagonista e nello spettatore un senso di claustrofobia opprimente: una “prigione di collettività” che Aster rappresenta attraverso la metafora dell’asfissia. La mancanza di respiro è infatti un tema ricorrente: il COVID che colpisce i polmoni, la mascherina che copre il volto, George Floyd e il suo grido “I can’t breathe, fino al respiro affaticato dall’asma del protagonista che si trasforma, nel finale, in un rantolo bestiale. Un concetto suggerito persino dall’ultima inquadratura nella quale il magazzino di server si erge enorme e luminoso a pochi passi da Eddington, che appare schiacciata e avvolta nel buio dell’incomunicabilità.

Eddington, la faccia triste dell’America

Nonostante Eddington affronti macro-temi che riguardano ognuno di noi, Aster sceglie di concentrare la propria attenzione sulla propria terra e di raccontare nello specifico la crisi della società americana moderna. Non sembra essere un caso quindi la decisione di costruire un protagonista sulla figura dello sceriffo, eroe per antonomasia della narrativa americana classica nell’immaginario collettivo (ci basti pensare ai vari ruoli incarnati da John Wayne nel corso della sua carriera).

Lo sceriffo che Aster ci propone, però, sembra ricalcare una figura fallimentare e de-potenziata, già proposta nel capolavoro dei fratelli Coen Non È Un Paese Per Vecchi. Il personaggio di Joaquin Phoenix diviene in questo modo la naturale evoluzione di quello di Tommy Lee Jones, cercando di ristabilire il proprio ruolo e riaffermarsi tramite un atto di potenza che, ben presto, assumerà caratteri paranoidi.

EDDINGTON - PHOENIX  IN AUTO

Joe Cross inizia così ad incarnare, agli occhi dello spettatore, la politica proposta dal pensiero trumpiano, costellata da slogan e derive autoritaristiche, rappresentando perfettamente il sentimento americano moderno che, non accettando la decadenza del proprio sistema, cerca a tutti i costi di rafforzare la propria natura per rendere (letteralmente) “l’America di nuovo grande”.

La critica proposta dal regista, però, non è unilaterale, anzi. Nonostante le sue criticità e le sue complessità, il personaggio di Phoenix risulta essere comunque più “umano” rispetto a quello di Pascal.
Se Joe Cross diviene lo stereotipo dell’uomo repubblicano, Ted Garcia assume tutti i tratti tipici del partito democratico americano: un uomo benestante e interessato principalmente alle apparenze, distante dalle problematiche concrete delle persone comuni a discapito di quelle della Big Tech, che desiderano costruire il proprio magazzino nella cittadina inquinando le risorse naturali circostanti.

Il conflitto tra questo tipo di dualismo si ripercuote anche sulla giovane generazione rappresentata all’interno del film tramite le proteste legate al movimento Black Lives Matter, che fungono da McGuffin per raccontare il contesto socio-tecnologico in cui sono immersi i vari personaggi. Anche questi ultimi appaiono agli occhi dello spettatore come confusi e spesso dominati da una visione emotiva che tende a ragionare per stereotipi piuttosto che su veri temi e strettamente dipendenti dalla componente tecnologica.

Sono due i denominatori che accomunano le varie figure che compaiono nel mondo di Eddington.
Il primo tra questi è identificabile nella paura e nel rifiuto della miseria e la povertà, incarnata perfettamente dal senzatetto folle che si aggira per le strade di Eddington. L’emarginazione verso quest’ultimo è condivisa da tutti i vari personaggi sin dal principio: Ted Garcia non gli consente l’entrata in un locale, i manifestanti interrompono il proprio sit-in non appena questo gli si avvicina, arrivando fino allo stesso Joe che decide di compiere nei suoi confronti un tragico gesto estremo. Un simbolismo narrativo che sottolinea l’ipocrisia del (deceduto) sogno americano e che delinea lo scenario capitalistico dalla quale questo mondo non riesce a fuggire.

Pedro Pascale  e Joaquin Phoenix parlano in Eddington di Ari Aster.

Il secondo denominatore, invece, risiede nell’influenza informatica a cui sono soggetti tutti gli abitanti di Eddington. I telefoni, in questo senso, diventano presto sia armi che strumenti di difesa, sempre pronti a essere puntati verso il prossimo con fare offensivo e accusatorio, delineando uno scenario di incomprensione comunicativa che sfocia, nel terzo atto dell’opera, in un’ondata di violenza effettiva, linguaggio primordiale intrinseco alla cultura americana stessa (come come esplorato nello splendido Civil War di Alex Garland).

Il parallelismo tra le armi e gli strumenti mediatici web è stato confermato dallo stesso Ari Aster che, durante un incontro al cinema Beltrade di Milano, ha spiegato come i proiettili sparati nel buio contro Joe Cross fossero in realtà una metafora perfetta per le opinioni e i giudizi espressi nel mondo dei social: colpi di nemici invisibili che mirano a distruggerti non in quanto persona, bensì come incarnazione di un ruolo da loro odiato e che, senza mezze misure, scatena la violenza più cieca.

Eddington, la colpevolezza dell’essere vittima

Sin dai primi cortometraggi (si pensi all’assurdo The Strange Thing About the Johnsons) Ari Aster ha sempre avuto un occhio di riguardo al tema della famiglia, argomento chiave della sua narrativa. Sebbene Eddington si distanzi in grande parte dai suoi predecessori, non è del tutto estraneo a questo concetto.

Nel film sono infatti presenti tematiche familiari che vengono messe in mostra tra le quattro mura di casa Cross, dove l’intimità del protagonista è condivisa con altre due figure femminili. Insieme a Joe, nella casa vivono infatti la moglie Louise (Emma Stone), artista dal carattere depressivo che crea bambole eccentriche ed inquietanti, e sua madre Dawn (Deirdre O’Connell). Quest’ultima, come tutte le madri all’interno delle opere di Aster, rappresenta una presenza intrusiva che, con teorie di stampo complottista e negazionista, manipola le azioni dei personaggi, spingendoli verso la loro natura più autodistruttiva.

Maggio 2020, New Mexico. Nel mezzo del deserto, la cittadina di Eddington si ritrova a fare i conti con le nuove disposizioni sanitarie imposte dalla pandemia di COVID-19, che hanno radicalmente modificato le abitudini. Lo sceriffo Joe Cross (Joaquin Phoenix) qui con altri poliziotti in assetto antisommossa, per le strade.

Sebbene possa non risultare evidente in superficie, l’influenza di Dawn gioca un ruolo chiave nello sviluppo (tragico) dei destini dei coniugi: sarà lei, infatti, a spingere definitivamente Joe a contrapporsi alla figura di Garcia, portandolo a muovere delle accuse di stupro contro quest’ultimo per mascherare, in realtà, gli abusi del marito nei confronti della figlia Louise. E sarà ancora lei a spingere quest’ultima a ricalcare le proprie tematiche negazioniste portandola ad affidarsi alla figura messianica rappresentata da Vernon (Austin Butler), con il quale la ragazza fuggirà in cerca di una forma di salvezza.

Una volta perduto il contatto con la figlia, Dawn inizierà poi ad assumere un interesse morboso per il genero che, nell’epilogo del film, diverrà una sorta di figlio adottivo. L’uomo verrà infatti rilegato al ruolo di figlio silente e colpevole di essere vittima della società che lo ha plasmato e che, a causa della propria mancanza di coraggio, non ha saputo fronteggiare.

Un’opera in stato di grazia

Oltre ai suoi contenuti ricchi di spunti di approfondimento, Eddington presenta una costruzione perfetta a livello sia tecnico che estetico. La scrittura, complessa ma non esente da momenti di ilarità e altri di estrema tensione, è sempre valorizzata dalla potenza dell’immagine, trattata con maestria dalla regia ferma e precisa di Aster, che varia a servizio della narrazione, e dalla splendida fotografia di Darius Khondji (già direttore della fotografia di grandi registi come Woody Allen, Michael Haneke, Bong Joon-ho e molti altri). L’ambientazione, seppur credibile, riesce a creare una sensazione estraniante nello spettatore che, catapultato all’interno dell’intreccio, rimane stregato dalle interpretazioni magistrali del cast (un plauso particolare allo stesso Phoenix e alla ottima Deirdre O’Connell).

Emma Stone in Eddington di Ari Aster

Non da meno sono le musiche e gli effetti speciali, andando a definire un apparato tecnico che, per il budget (relativamente) ridotto, svolge un lavoro sopraffino.

In conclusione, si può affermare che Eddington sia un film estremamente articolato e affascinante, una fotografia dettagliata e inquietante del nostro passato, presente e possibile futuro. Un’opera complessa che, proprio a causa della sua complessità, corre il rischio di non essere compresa e venir giudicata, con raffazzonata superficialità, come un “mappazzone” senza né capo né coda o da altri ancora “offensiva”.

Ad Aster, però, poco importa di essere divisivo, anzi: citando le sue parole, se il suo cinema fosse “comodo” e “per tutti”, significherebbe per lui un fallimento.

Ciò che conta per il regista americano è invece il passo che supera il limite, la barriera che si infrange, lo specchio che si rompe e che ci mostra, in ogni sua scheggia, il riflesso frammentato della nostra umanità.


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Nato nel 1993 , giusto in tempo per vedere Pulp Fiction l’anno dopo. 
Sono un musicista che ha una passione patologica per il cinema. Adoro la sala e sono fermamente convinto che debba esistere un girone infernale per quelli che parlano a voce alta durante il film. Scrivo, vivo, faccio cose, vedo gente.

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