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The Studio

The Studio, l’irriverente satira dell’industria hollywoodiana

16 minuti di lettura

«Non facciamo film per guadagnare soldi. Guadagnamo soldi per fare ancora più film». Così disse una volta Walt Disney, stabilendo una differenza fondamentale fra i termini inglesi “film“, generalmente usato in inglese britannico, e “movie“, usato invece in inglese americano. Di base, per “film” si intende una forma vera e propria d’arte, che si realizza per diffondere il piacere stesso dell’arte e della qualità, e non per fare soldi, anzi, secondo Disney bisogna fare soldi per fare sempre più film.

Ultimamente, però, questo paradigma è stato invertito al grido di «we don’t make films, we make movies»: noi non facciamo più arte, ma prodotti commerciali che tutti sono disposti a pagare per vedere. Con questa visione cinica e materialista dell’industria cinematografica si confronta il duo di Seth Rogen e Evan Goldberg con The Studio, serie tv che ironizza molto sull’industria hollywoodiana uscita recentemente per Apple TV +.

La trama di The Studio

The Studio ha per protagonista Matthew “Matt” Remick (Seth Rogen), quello che tutti sui set cinematografici chiamano “the studio guy, il tizio degli studio, il solito impiegato chiamato a sovrintendere la produzione dei film, una persona che ha molta passione per il cinema e che fosse per lui, girerebbe il nuovo Rosemary’s Baby o Annie Hall invece di girare film su noti brand commerciali o film «girati da pervertiti del cazzo».

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La svolta per Remick arriva quando Patty Leigh (Catherine O’Hara), capo degli studio, viene licenziata dal CEO della Continental Griffin Mill (Bryan Cranston), che ha appena chiuso un accordo milionario per fare un film sul Kool-Aid e vede in Matt l’uomo giusto per fare non film, ma “movies, ovvero film commerciali e di puro svago che la gente vuole pagare per vedere, cosa che il protagonista accetta di fare per ottenere il tanto agognato ruolo di capo degli studi della Continental.

Se, inizialmente, Matt accoglie la notizia con grande entusiasmo, piano piano si rende conto che salvare uno studio cinematografico in piena crisi non è facile, soprattutto se devi avere a che fare con registi e attori narcisisti che pretendono che ogni capriccio venga soddisfatto. Cresciuto inizialmente con l’idea di voler essere più amichevole con chi lavora, il protagonista comincia a comprendere quanto sia importante in realtà fare tutto ciò che è meglio per gli affari.

The Studio, un nuovo tassello della comicità metacinematografica e metatelevisiva

Chi ha già avuto modo di vederla in anteprima o di vederne i primi episodi, si renderà conto di quanto The Studio sia molto simile ad altre serie tv che abbiamo avuto modo di vedere in questi anni. Rogen e Goldberg, infatti, hanno scritto, diretto e prodotto una serie tv che si va ad aggiungere a un filone molto fortunato come quello metatelevisivo e metacinematografico di cui fanno parte serie tv note o no al pubblico italiano come Boris, Call My Agent, Reboot e Fiasco.

Grazie a The Studio, gli spettatori hanno modo di vedere il mondo del cinema e della televisione attraverso una nuova prospettiva: se Boris e Fiasco ci offrono la prospettiva di un regista, Call My Agent degli agenti del mondo dello spettacolo e Reboot degli attori e degli sceneggiatori, The Studio mostra, invece, la prospettiva inedita degli executives, i burocrati che sovrintendono i processi di produzione e di realizzazione dei vari progetti cinematografici.

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Per mostrare al meglio come funzionano le dinamiche di produzione di un’industria cinematografica in continuo cambiamento (cosa molto in comune con la quarta stagione di Boris, che si confronta, ad esempio, con l’avvento dello streaming), non solo The Studio ci porta dentro il processo creativo dei film, della loro promozione e distribuzione, ma la nuova fatica del duo Rogen e Goldberg si avvale dell’uso di un cast stellare di tutto rispetto che con ironia si mette in gioco estremizzando i propri vizi e difetti.

Martin Scorsese, Peter Berg, Paul Dano, Nick Stoller, Ron Howard, Anthony Mackie, Olivia Wilde, Zac Efron e Zoë Kravitz sono alcuni dei tanti attori e registi che si mettono in gioco per inscenare una satira pungente sull’industria cinematografica hollywoodiana che si deve muovere fra richieste assurde di primedonne del cinema, tiktokers che invadono i red carpet dei Golden Globes, un pubblico che vuole più inclusività nei film, grandi colossi pronti a comprare studi cinematografici in fallimento e l’intelligenza artificiale che diventa sempre più decisiva nei processi di produzione cinematografici.

The Studio, Hollywood secondo Rogen e Goldberg

Capire The Studio significa capire principalmente la direzione che sta prendendo l’industria cinematografica americana. Rogen e Goldberg mostrano agli spettatori un ambiente in linea con quelle che sono le recenti evoluzioni economiche e sociali che ci stanno coinvolgendo e che in un certo senso dettano legge e guidano il processo creativo, sempre più orientato a soddisfare il pubblico e il mercato invece che soddisfare il bisogno di fare arte per il gusto di farla.

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Per sopravvivere, gli studi hollywoodiani, qui ben rappresentati dai Continental Studios, sono costretti a inseguire chimere come le tendenze, sempre ballerine e sempre difficili da soddisfare. Dirigenti come Matt, per esempio, devono avere il coraggio di dire a un regista di tagliare scene lunghe che sono sì nate per rielaborare traumi personali, ma che annoierebbero gli spettatori con film che durerebbero tre ore – evidente, qui, la stoccata a film recenti come Oppenheimer, Killers of the Flower Moon o The Brutalist –, per non parlare del fatto di dover scegliere un cast il più inclusivo possibile per non offendere la sensibilità degli spettatori.

Oltre a questo, ciò che muove maggiormente Hollywood in The Studio è il profitto: si preferisce, infatti, fare film su brand famosi come Jenga o Kool-Aid – anche qui un’altra frecciata all’industria cinematografica attuale, in particolare al recente film Barbie – perché portano più soldi, cosa molto importante per una casa di produzione cinematografica che deve combattere con lo streaming; e se ricchezza chiama ricchezza, le varie cerimonie di premiazione sono diventate sempre più eventi mondani privi di significato e ricche di sfarzo che, invece di unire le persone, le divide dando più risalto a chi mostra più lusso invece di chi mostra più arte. Dopotutto, come dirà un personaggio nel corso della serie, «nulla ha senso in questo business».

The Studio, la solitudine di Matt Remick

Il personaggio di Matt Remick diventa, allora, una chiave d’accesso importante per questo business privo di senso e capriccioso allo stesso tempo. Il protagonista di The Studio tanto ricorda Alessandro, personaggio prima stagista e poi fra i dirigenti della nuova piattaforma di Boris attraverso cui impariamo a conoscere come si è evoluta l’industria televisiva e cinematografica italiana.

Come Alessandro, infatti, Remick in The Studio riesce poi a realizzare il suo sogno di avere un ruolo importante all’interno dell’industria cinematografica, ma continua sempre a essere bistrattato: se all’inizio della serie viene chiamato “Tom” invece di Matt da Peter Berg, e Paul Dano non lo considera nemmeno di striscio perché impegnato a cambiare interpretazione del suo personaggio, c’è chi invece lo considera soltanto per avere qualcosa in cambio da lui come un jet privato o la sua Corvett del ’53 e chi invece lo esclude dalle feste perché Matt vuole risparmiare sulle stesse e investire i soldi nella produzione dei film.

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Dal canto suo, Matt cerca sempre di essere amichevole con le persone con cui lavora, in quanto pensa che la buona riuscita di un film sia possibile nel momento in cui mantiene un rapporto amichevole con le persone con cui interagisce, nel momento in cui fa capire loro che non sono importanti i soldi, ma l’arte. Quello che, però, Matt vive sulla propria pelle è che le persone vogliono da lui che sia un dirigente, non un artista: l’industria cinematografica con cui Remick interagisce non è interessata ad avere nessun legame affettivo, ma vuole soltanto il profitto, e ti considera solo se glielo garantisci.

Il protagonista, che in realtà è consapevole delle difficoltà dei Continental Studios a sopravvivere e non vuole che si spendano soldi inutilmente, soffre invece il fatto che per la buona riuscita di un film debba usare qualsiasi risorsa economica in suo possesso per accontentare persino il capriccio più dispendioso. Questa sua contrarietà lo porta a essere sempre più isolato da Hollywood, che gli preferisce il suo vice e braccio destro Sal Saperstein (Ike Barinholtz), la persona che viene invitata alle feste esclusive e viene ringraziato ai premi al posto suo perché capace di assecondare con false promesse attori e registi narcisisti e dunque considerato simpatico agli occhi dei più.

The Studio, da tempio a tomba del cinema

A poco a poco che si andrà avanti con la serie, ci si accorge di quanto The Studio sia molto simile a Boris. Che sia la prospettiva di un dirigente o quella di un regista, sia Matt che Renè Ferretti diventano sempre più consapevoli di come, in realtà, la passione per il proprio lavoro debba fare sempre più spazio al cinismo, al profitto. Se Ferretti dice alla fine della terza stagione di Boris che «la qualità c’ha rotto er cazzo» e «viva la merda», Matt impara a poco a poco che, se Hollywood un tempo era il tempio del cinema, ora sta diventando sempre più la sua tomba.

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L’inizio di questa consapevolezza, che Rogen e Goldberg riescono a sviluppare meglio nel corso degli episodi, arriva già nel primo episodio, quando Matt parla con Patty del progetto Kool-Aid dicendo di aver paura che il suo lavoro sia diventato quello di rovinare i film invece che farli, con Patty che avvalora la sua tesi dicendo che il lavoro di dirigente ti fa piombare in un tritacarne dove devi essere disposto a rinunciare a ciò a cui sei legato per soddisfare persino le richieste più assurde per vedere il proprio nome nei titoli di coda di un film.

Tuttavia, se da un lato Matt deve per forza cedere all’idea che i “film” d’arte debbano lasciare spazio ai “movies” di consumo accettando, ad esempio, che i registi abbiano l’ultima parola sui film accontentandoli in tutto e per tutto per non perdere contratti e inseguendo le logiche di mercato, dall’altro, invece, comprende che c’è ancora un modo per non perdere del tutto la propria passione per la settima arte.

Nonostante il nonsense e la follia dell’industria hollywoodiana, Matt vede comunque che il cinema riesce ancora a unire le persone. Il protagonista, dunque, sa di muoversi in una tomba del cinema, ma sa anche che finché il cinema continua a unire le persone pur offrendo loro prodotti non sempre di ottima qualità artistica, allora esso continuerà a vivere, e nessun film sarà veramente rovinato. Se Matt riesce nell’obiettivo di produrre film di scarsa qualità, ma che piacciono alle persone, allora nulla sarà veramente perduto.

The Studio, non si fanno film, ma “movies

Ultimamente si abusa troppo nelle recensioni del termine “necessario”, ma per The Studio, la terza fatica da registi di Seth Rogen e Evan Goldberg, questa parola è giusto usarla. The Studio è una serie tv necessaria non tanto per noi spettatori italiani, ma per quelli americani, che finalmente hanno ottenuto il loro Boris e hanno trovato qualcuno che forse per la prima volta ha saputo mettere a nudo il vero volto dell’industria cinematografica americana.

Augurandoci che Apple TV la rinnovi per una seconda stagione, The Studio ci racconta attraverso le rocambolesche vicissitudini di Matt Remick l’evoluzione dell’industria hollywoodiana, un tempo interessata a fare arte e ora interessata soltanto al profitto inseguendo le tendenze e i capricci del mercato. Sebbene sembri impossibile offrire un prodotto di qualità artistica, sembra, però, ancora possibile unire le persone e portarle assieme al cinema, e finché il cinema continua a unire le persone, continuerà a sopravvivere e a regalarci emozioni.

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