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Ritratto della famiglia Graziadei, protagonista degli eventi del film Vermiglio di Maura Delpero

I migliori film italiani del 2024, secondo noi

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18 minuti di lettura

In Italia, se chi osanna il cinema italiano fosse un po’ più critico nei suoi confronti e chi lo ripudia a priori imparasse ad amarlo e comprenderlo, la situazione sarebbe decisamente più rosea per l’intero settore.

Primo sintomo di questa sfiducia del pubblico nei confronti delle produzioni nazionali è l’entrare in una sala pronta a proiettare il lavoro di un regista nostrano e accorgersi che le poltrone sono ammantate da un candido tappeto di capelli bianchi. Le generazioni più giovani hanno perso interesse nei confronti di un cinema che, anno dopo anno, continua a essere concepito principalmente da persone anziane per spettatori altrettanto attempati, o che deve solo superare i test ministeriali delle commissioni selettive per ottenere i fondi pubblici legati a “l’interesse culturale.”

Lo stato del cinema italiano nel 2024

Da una parte ci troviamo a dover fare i conti con quello che Truffaut avrebbe definito “cinéma de papa“: gli Amelio, le Archibugi che continuano a infestare le sale d’Italia tendono a rendere monolitica l’idea di cinema italiano che tanto pubblico si è fatto. Dall’altra, la speculazione finanziaria che attanaglia il settore da decenni non sembra accennare ad esaurirsi, complici le criminali riforme dell’ex-ministro Sangiuliano che dovevano sfoltire gli aiuti economici ministeriali – come sarebbe giusto fare -, ma che finiscono solo col potenziare le capacità produttive delle sole major internazionali.

Il periodo è, insomma, abbastanza problematico, ma in mezzo a tutta questa negatività va registrato, in particolar modo in quest’ultimo anno, un lento rinvigorirsi del cinema in Italia, almeno sul profilo creativo e autoriale. Con questa breve carrellata in ordine sparso, vogliamo segnalarvi i film prodotti in Italia nel 2024 che dovreste assolutamente recuperare per riacquisire un poco di speranza in quello che un tempo fu il più grande impero cinematografico d’Europa e che, nelle giuste mani, potrebbe tornare ad esserlo.

L’Italia di Vermiglio

Scena del film italiano Vermiglio in cui tutto il paese fa una tavolata per le nozze di Lucia.

Vermiglio è stata la sorpresa del 2024: il film rappresenterà l’Italia agli Oscar, superando quindi Parthenope di Paolo Sorrentino. L’atipicità di Vermiglio ne fa un prodotto unico tra quelli che intendono rappresentare l’Italia all’estero, dagli attori non professionisti ai dialoghi recitati in ladino. Vermiglio è un film fatto di nevicate che sommergono le parole, di cieli e valli che racchiudono segreti, tra cui quelli che detteranno il destino della famiglia Graziadei. La Guerra non arriverà mai a Vermiglio: dal villaggio di montagna si può solo percepire cosa succede a valle.

Forse perchè l’Italia è veramente un paese fatto di distanze e differenze; o forse perchè ciò che succede lassù, dove un essere umano sembra solo un puntino, ha la sua importanza, la sua dignità. La regista Maura Delpero offre uno dei ritratti più delicati dell’anno, mostrando l’Italia autentica, quella del focolare. Un racconto di vite troppo spesso cedute all’oblio, che finalmente trovano il loro posto sullo schermo. Dalle cime innevate delle Alpi alle coste battute dal sole della Sicilia, la memoria si intreccia con il presente.

La Napoli di Parthenope

Scena di Parthenope, con Parthenope (Celeste Dalla Porta) a sinistra e John (Gary Oldman) a destra.

Parthenope è uno dei film certamente più sregolati e complessi del regista Paolo Sorrentino, eppure uno dei più affascinanti: protagonista è la sirena Parthenope, che attraversa l’Italia del dopoguerra fra amori, tragedie e scoperte filosofiche. Come Fellini prima di lui, Sorrentino si lascia ispirare più dalla letteratura che dal cinema, catturando le stesse atmosfere de La Pelle di Curzio Malaparte e dell’espanso genere sudamericano del Realismo Magico.

Il film è un flusso di coscienza degno di Roma (1972), nel quale vaghe impressioni poetiche si intrecciano a momenti di profondo sgomento: al centro di tutto vi è proprio la dualità della vita, a tratti meravigliosa, a tratti terrificante, sempre complessa da realmente “vedere”. Il punto è proprio legato a come Sorrentino stesso abbia dovuto imparare a vedere oltre la coltre di dolore e squallore che compone Napoli e le sue contraddizioni di estrema bellezza ed estrema povertà. Da Napoli prima si fugge stomacati quando la bellezza superficiale del mare e del sole non bastano più e poi si torna malinconici dopo aver maturato una nuova sensibilità nello lasciar scorrere il tempo.

La sorellanza ribelle di Gloria!

Le quattro protagoniste del film, le orfanelle del Sant'Ignazio, si abbracciano. A destra Teresa, protagonista del film

Gloria! è una celebrazione della musica che nasce da piccoli gesti, un’opera audace che sfida le convenzioni tradizionali del panorama cinematografico d’Italia. Fresco, spigliato, opera prima di Margherita Vicario, Gloria! infrange le regole del cinema e della musica, portando ritmi pop in un convento del Seicento.

Nonostante qualche ingenuità tipica degli esordi, il film è di una vivacità contagiosa, con una messa in scena delicata, esaltata da colori pastello e un uso inaspettato delle personalità di Elio e Paolo Rossi. Lo spettatore è rapito da quella che si rivela una falsa partenza: la narrazione ha infatti una vena più cupa del previsto. Avvolte nella quiete stagnante delle paludi venete, le giovani del monastero di Sant’Ignazio spezzano la malinconia dell’esistenza con le loro melodie, purtroppo perse nell’oblio. Vicario recupera allora i loro sforzi e li mette in scena con un twist finale alla Tarantino. Perchè a volte il cinema è un modo di fare giustizia (poetica) per chi non ha potuto ottenerla in passato.

I non-luoghi di Dostoevskij

Primo piano del protagonista del film italiano Dostoevskij.

Mini-serie passata al cinema in una ridottissima finestra, Dostoevskij è scritta e diretta dai fratelli D’Innocenzo, autori del già iconico Favolacce (2020): Enzo Vitello è un poliziotto dal passato turbolento e dal presente devastato, incastrato in una infruttuosa caccia all’assassino con uno spietato serial killer che lascia lettere su ogni scena del crimine, per questo rinominato Dostoevskij dalla squadra di polizia. I D’Innocenzo spostano l’azione dalle solite desolate periferie ad un vero e proprio non-luogo, a metà fra il post-apocalittico e il post-sovietico dei film di Béla Tarr.

L’atmosfera è densissima, ricca di suspense e cruda violenza; l’estetica estremamente curata nel suo voler apparire squallida: girato su una “pellicola” sporca e piena di imperfezioni, Dostoevskij può anche vantare una regia dinamica e incline alla sperimentazione almeno quanto lo era quella del precedente film dei due fratelli, America Latina (2021).

Il tempo che ci vuole, un ritorno alla semplicità

I protagonisti del film sono seduti in una sala di cinema. A destra Luigi Comencini, a sinistra Francesca

Il tempo che ci vuole, film autobiografico di Francesca Comencini sul rapporto tra lei e il padre Luigi, ha colpito i cuori degli spettatori per la sua spontaneità ed efficenza narrativa. Non a caso, è arrivato secondo al botteghino, subito dopo Vermiglio (creando un altro unicum del cinema italiano in questo momento, ossia due donne in cima al box office Italia). Il film ha un’incredibile sensibilità nel raccontare gli eventi, non cerca il sensazionalismo; si rifugia talvolta nella nostalgia ma sempre con naturalezza.

Romana Maggiora (giovane promessa già in C’è ancora domani) interagisce in maniera autentica con il gigante del cinema Fabrizio Gifuni (Esterno Notte), permettendo allo spettatore di guardare, ma da lontano, senza mai infrangere quell’intimità silenziosa che si è creata tra i due. Sebbene Il tempo che ci vuole soffra di alcune problematiche, il film si lascia guardare da tutti, grandi e piccoli, impartendo una lezione sulla genitorialità senza mai risultare moralista. Non vi è la minima ombra di giudizio nelle parole di Luigi e nello sguardo registico di Francesca: il film dà delle risposte su tematiche universali mai con presunzione, sempre e solo con semplicità.

L’America di Napoli – New York

Immagine tratta dal film Napoli - New York. Carmine (Antonio Guerra) e Celestina (Dea Lanzaro) si abbracciano.

Vedere un nuovo film di Federico Fellini al cinema nel 2024 sembrava impossibile e, invece, grazie al coraggio di Gabriele Salvatores, è divenuto possibile: Napoli – New York è la trasposizione filmica di un soggetto scritto da Fellini e Pinelli negli anni ’50, incentrato sull’Odissea di emigrazione di due bambini napoletani sopravvissuti ai bombardamenti della città, che si imbarcano clandestinamente per l’America.

Per quanto sia assolutamente evidente cosa ha scritto Salvatores e cosa invece nasce dalle menti di Fellini e Pinelli, le due metà del film non stonano l’una affianco all’altra. Va riconosciuto a Salvatores di aver saputo fare un passo indietro rispetto all’autorialità di un grandissimo come Fellini, che qui regala due visioni dell’Italia e dell’America assolutamente critiche e al contempo ricche di quella stessa agrodolce malinconia che riempiva La Strada (1954) e Le Notti di Cabiria (1959). Oltre a questo, Salvatores aggiunge un importante messaggio politico che rende la vicenda ancora più attuale di quanto non lo fosse in partenza.

Bestiari, erbari, lapidari, interrogarsi sul cinema

Inquadratura del film in cui un esperto mostra dei pezzi di pellicola collezionati nel tempo

In Italia, da sempre, ci siamo distinti per i nostri cineasti visionari, i quali hanno regalato al pubblico sogni, riflessioni sul futuro e molto altro. Negli anni, il processo di “omogenizzazione” dell’industria culturale ha fatto sì che talvolta i prodotti nostrani fossero blandi, ripetitivi, privi di riflessione sul medium utilizzato. Per questo, segnaliamo l’ultima opera magistrale della coppia Massimo D’Anolfi e Marina Parenti, Bestiari, Erbari, Lapidari.

Più che un film, il prodotto audiovisivo di 3 ore è una meditazione sull’immagine stessa: cosa ne è stato degli studi di fotogenia fatti dai teorici del cinema? Qui i registi li recuperano e li rielaborano, cercando il punto di partenza del nostro immaginario cinematografico. L’enciclopedia visiva si pone proprio come un documento di consultazione: le inquadrature passano lentamente sullo schermo, come se stessimo sfogliando le pagine di un libro. Il film richiede quindi la partecipazione attiva dello spettatore, il quale si interroga sul significato delle immagini nell’impianto estetico proposto da D’Anolfi e Parenti.

Bestiari, Erbari, Lapidari è rientrato anche nella nostra lista dei migliori documentari del 2024, ndr.

Il rurale di Invelle

Primo piano della bambina protagonista di Invelle.

Invelle in dialetto marchigiano significa “in nessun luogo”. Ed è proprio lì che le protagoniste di questo film d’animazione abitano, quel nulla lontano dalla vita urbana dell’Italia prima reale, poi fascista ed infine post-boom economico. Si narra la vita di tre donne, nonna, madre e figlia, che si susseguono nella storia quasi sostituendosi l’una all’altra, in un continuo gioco di identità femminili che va dalla Prima Guerra Mondiale fino agli anni ’80 del secolo scorso.

Attraverso i maggiori avvenimenti della storia nazionale, le tre protagoniste notano che, in un modo o nell’altro, la condizione di donna non cambia col cambiare del paese: sempre sacrificate per il bene della famiglia, sicure di poter contare solo sul legame che le unisce. Il regista Simone Massi sceglie l’animazione per poter raccontare questa storia attraverso la lente onirica del ricordo e della favola: Invelle è uno di quei rarissimi film – viene in mente La Casa Lobo (2018) come paragone virtuoso – che si avvalgono appieno del loro medium. Il film è interamente creato a mano, con mirabolanti voli della “macchina da presa”, impossibili transizioni da una sequenza all’altra ed un rigore stilistico assolutamente invidiabile nell’utilizzo del colore e delle ombre.

L’autenticità di Vittoria

La protagonista del film Jasmine in un momento di riflessione

Vittoria, scritto e diretto da Alessandro Cassigoli e Casey Kauffman, è l’ultimo tassello di una trilogia (apocrifa) ambientata a Torre Annunziata, che include i precedenti film del duo, Californie e Butterfly. La trilogia narra in modo nitido uno spaccato di vita dell’Italia: i registi, prima di completare il loro lavoro, hanno vissuto numerosi anni nel paesino in provincia di Napoli. I due possiedono una forma del racconto particolare, in quanto forniscono a persone vere che vivono le proprie vite una sorta di “canovaccio”, un’idea di dove vada a finire la narrazione.

Vittoria fa un passo in avanti, in quanto la storia raccontata, quella di un’adozione, è già accaduta: la protagonista del film è la stessa degli eventi reali, le parole recitate sono già state dette, calando il tutto in un mistico realismo. Vittoria è un film dalla dolcezza infinita; ogni tentativo di drammatizzazione è completamente assente: il film fa sciogliere lo spettatore per la semplicità della storia narrata, che, come una matrioska, si apre, rivelando il mondo interno di persone comuni. Il lavoro documentaristico di Cassigoli – Kauffman sfuma la linea di separazione tra il fittizio e la realtà, rendendo così anche l’azione più banale carica di potenziale filmico e immaginifico.

Il mondo di Berlinguer. La Grande Ambizione

Il protagonista di Berlinguer-La grande ambizione che scrive al tavolo.

Il cinema di Andrea Segre, grande regista contemporaneo ingiustamente sottovalutato, è fondato su un’estetica fredda e chirurgica, capace di sottolineare le storture del mondo e della storia: in chiave diversa viene usato questo suo stile per Berlinguer. La Grande Ambizione, film costruito attorno ai documenti, sia cartacei che visivi. La vita dello storico leader del Partito Comunista Italiano è raccontata dal 1973 al 1978, gli anni più caldi, quelli in cui il terrorismo rosso e nero hanno messo a ferro e fuoco l’Italia, in cui Berlinguer – qui magistralmente interpretato da Elio Germano – iniziò a lavorare per il Compromesso Storico, in cui diversi assassinii di altissimo profilo sconvolsero il mondo intero.

La scelta di Segre di utilizzare massicciamente filmati d’archivio serve proprio a ricordare la permanenza di certe battaglie e di certi valori che hanno in passato mosso “un italiano su tre”. Questo continuo ricorrere alle immagini viene intelligentemente rafforzato dalla musica composta da Iosonouncane e da Daniela Pés, che hanno creato uno dei temi musicali più suggestivi degli ultimi 10 anni di cinema italiano con il brano I Funerali di Enrico.


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Appassionato e studioso di cinema fin dalla tenera età, combatto ogni giorno cercando di fare divulgazione cinematografica scrivendo, postando e parlando di film ad ogni occasione. Andare al cinema è un'esperienza religiosa: non solo perché credere che suoni e colori in rapida successione possano cambiare il mondo è un atto di pura fede, ma anche perché di fronte ai film siamo tutti uguali. Nel buio di una stanza di proiezione siamo solo silhouette che ridono e piangono all'unisono. E credo che questo sia bellissimo.

Dalla prima cassetta di Spielberg che vidi a casa di nonna, capii che il cinema sarebbe stata una presenza costante nella mia vita.
Una sala in cui i sogni diventano realtà attraverso scie di luce e colori è magia pura, possibilmente da godere in compagnia.
"Il cinema è una macchina che genera empatia", a calarmi nei panni degli altri io passo le mie giornate.

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