Volge al termine l’anno, anche per il cinema. Tra sale chiuse e tentativi di ripartire dal Box Office, pure il 2021 ha lasciato il segno con grandi blockbuster e film d’autore. In aiuto il ritorno dei Festival e la distribuzione di alcune pellicole da tempo parcheggiate negli studios. I tempi dei “coming soon” più vaghi, in attesa di mesi migliori con l’occhio puntato sui contagi, hanno lentamente lasciato spazio a distribuzioni a volte coraggiose, altre sciagurate (si è parlato molto di Diabolik in sala con l’inarrestabile Spider-Man: No Way Home). Ma questi sono discorsi per analisti, riflessioni di grafici a torte e accuse a un sistema per molti colluso con il declino della sala. Parliamo d’arte, che forse è meglio. Giochiamo alle top, antico guilty pleasure cinefilo. Per ragioni di spazio ci siamo dati un limite: i 10 migliori film del 2021, secondo noi. Dunque, aiutateci a chiudere la lista e fateci sapere le vostre pellicole del cuore.
Una breve premessa metodologica: sebbene i Festival concedano l’opportunità di vedere alcuni dei film già distribuiti in altri paesi, e le mille vie dello Streaming pirata non conoscano confini, abbiamo deciso di includere solo le pellicole distribuite nel territorio italiano (in sala o sulle piattaforme) dall’1 gennaio 2021 al 31 dicembre. Dunque non troverete film attesi come Spencer di Pablo Larraín. Al suo posto, le avventure di Sir Gawain, le magliette di Almodóvar e le sfide firmate Carax. Ecco i 10 migliori film del 2021, secondo noi.
Madres Paralelas, di Pedro Almodóvar
Il dramma almodovariano allo stato puro, e non solo. Dopo la ricerca intima, privata e autobiografica di Dolor y Gloria, il regista madrileno torna alla 78esima Mostra Internazionale del Cinema di Venezia per raccontare una coppia di madri e uno sfondo sociale segnato dalle ferite. Il franchismo mai risolto, mai guarito, ancora in tormento sotto le fosse comuni disperse nel paese, è quanto più interessa ad Almodóvar. Si rivela però negli ultimi istanti, dopo aver raccontato una vicenda personale e tragica, che permette al regista di giocare con la propria estetica senza mai consumarla. La natura morta su cucine sempre perfette, la maglietta che cita Ngozi Adichie – “We Should all be Feminist” – e la conversazione tra Penélope Cruz e Milena Smit sui modi migliori per cuocere le patate sono l’insieme ribollente di un cinema che è struttura, geometria, colore e dolore delcinato al femminile, pur non cessando mai di essere politica.
Legggi la nostra recensione di Madres Paralelas
Drive My Car, Ryûsuke Hamaguchi
In Italia, nel 2021, abbiamo visto due film diretti da Ryusuke Hamaguchi: un regalo del cinema ai suoi appassionati. Nel giro di pochi mesi, il regista giapponese ha vinto il gran premio della giuria al Festival di Berlino per Il gioco del destino e della fantasia, per poi essere selezionato nel concorso di Cannes, dove ha mostrato in anteprima Drive My Car. La giuria ha scelto Titane, anch’esso in questa lista, ma dove il cuore si è fermato è qui, nell’adattamento di un racconto scritto da Haruki Murakami e contenuto nella raccolta Uomini senza donne.
È un film lungo, Drive My Car, ma del tutto capace di lasciare fuori le lancette. È la scrittura di Hamaguchi ad essere pura alchimia che tramuta ogni parola in oro, da cui pendiamo ammaliati. La vicenda riguarda Yusuke e la sua autista, tra loro sconosciuti e in apparenza distanti. Il primo è un attore e regista ancora sconvolto per la scomparsa della moglie. Lei, invece, è la sua autista. La meta è quantomeno significativa e ci dovrebbe condurre al Festival di Hiroshima, dove il regista presenta il suo personale Zio Vanja. La Saab 900, macchia rossa che dall’immagine in locandina ci invita a entrare in sala per dimenticare tutto, è l’altro protagonista. La macchina – più sommessa della cadillac con cui la protagonista di Titane giunge a copulare – è una freccia rossa che attraversa le parole e consegna un film che fulmineo diventa “del cuore”.
Sir Gawain e il cavaliere verde, di David Lower
La A24 è il paese dei balocchi per molti cinefili. Le loro produzioni sono attente all’immagine, al significato, all’estetica – spesso esasperata in cinema-instagram per palati facili che si suppongono sopraffini – ma anche e soprattutto alle storie che altrove non avrebbero seguito. Pensiamo al The Lighthouse di Robert Eggers, e a tutta la wave horror degli ultimi anni. Di certo, per fortuna e possibilità, è anche il caso di questo Sir Gawain e il cavaliere verde, tra le grandi sorprese del 2021. Una vicenda che diremmo fantasy, ma che sembra viaggiare nel tempo sino all’oralità delle leggende, quando il mito era osservare il mondo. Protagonista è il giovane nobile, figlio di Morgana e nipote di Re Artù, interpretato da Dev Patel. La sua è una storia a letere delle leggende, persa nella polvere dei racconti tramandati e ora risorti in un cinema onirico e simbolico che riflette sulla paura e l’ipocrisia dei valori cavallereschi. Immergersi in quest’immaginario non è mai stato così ipnotico. Giganti antropomorfi, volpi rosse, asce brandite contro uomini di legno che incassano e rispondono. Il cinema nel tracciato dell’oralità è invero un’estetica densa di idee e lineare nello sviluppo. Dev Patel è perfetto e racconta i timori leggendari di uomini sospesi tra morte e gloria eterna. Il mito prende così le forme di una trappola dell’uomo per se stesso.
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Annette, di Leos Carax
Leos Carax, che con Annette torna a vincere a Cannes (questa volta per la regia quando con Holy Motors ottenne Prix de la jeunesse) gioca ma non diverte, e dopo aver attirato il pubblico con un cast da copertina di Variety (Adam Driver e Marion Cotillard) lo rifiuta e rigetta in pasto a un’estetica di eccessi teatrali. È il cinema di Carax, signori e signore: un gioco in cui si vince e si muore. Se Holy Motors trovava la fiaba nella carne che scompare e si fa arte digitale e pura narrazione – la motion capture era poesia del corpo – Annette, analogico e teatrale, sceglie un mondo di generi più rigidi, dove un conflitto tra femminile e maschile è ancora possibile senza le ibridazioni della Ducournau e il suo Titane. Si approda in un labirinto umano che fa eco al miglior cinema, assomigliando nelle premesse a una storia di amore-mortifero tra l’ultimo Woody Allen e Hitchcock (lui uccide lei che torna come rigurgito della coscienza) ma contestualmente vicino alle logge nere di David Lynch quanto alla psicomagia di Jodorowsky. C’è un po’ tutto. Ma mai abbastanza per soddisfare l’occhio dello spettatore, prontamente viziato da Carax con giochi d’immagine consapevoli e saltuariamente gratuiti.
Persino una banalità come il montaggio consonante di musica e immagini diventa occasione estetica, con il jack audio di una chitarra che dà il tempo all’alternarsi di frame. Ogni interstizio è occupato, come richiesto dalla tradizione cui Carax è figlio, nato nel solco della Nouvelle Vogue più tarda e decadente. Alcune trovate vengono da lì, in un cinema che se accostato al teatro scompare e diventa meccanismo, come la morte, vera protagonista di Annette. La storia di due artisti: lui, un saltimbanco da Stand-up truce e cinica, lei il fantasma dell’opera. Lo scontro crea – procrea! – e nasce Annette. A lei il compito di redimere il mondo, ma in un altro film. Qui c’è spazio per le canzoni che squarciano e liberano, che uccidono e intonano: il cinema di Carax guarda nell’abisso.
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Il Collezionista di carte, di Paul Schrader
Iniziamo con un aneddoto. Qualche giorno fa, Paul Schrader ha pubblicato sui suoi profili social – sempre molto attiviti – la sua personale top10 dei film usciti nel corso dell’ultimo anno. Al primo posto? Nessuno dubbio: Il collezionista di Carte, da lui scritto e diretto. Fa sorridere perché fuori da un circolo di buoni costumi e riverenze cavalleresche (non quelle di Sir Gawain e il cavaliere verde ma più mortali) tipiche del mondo dello spettacolo.
Paul Schrader, classe 1946, segue un approccio tutto suo. E forse fa bene. Non abbiamo voluto decidere se il suo Il Collezionista di Carte meriti davvero la cima della montagna, ma di certo ne è un tratto importante. Un film che assomiglia – per temi ed estetiche – al suo regista, tanto in quanto già diretto che in quello che negli anni ha scritto. Parliamo pur sempre dello sceneggiatore di Taxi Driver e Toro Scatenato. Ma anche del regista del più recente First Reformed. La sua è dunque una produzione precisa e organica che torna in Il collezionista di carte a parlare dei demoni che ci guidano, delle ferite che segnano, e delle società che li nutrono.
Al centro ancora gli Stati Uniti d’America, luogo di solitudine che riflette sempre l’insieme sociale. Il protagonista interpretato da Oscar Isaac – l’attore appare anche più avanti nella nostra top10 – è un veterano di guerra ed ex carcerato, tra i soldati sacrificati dal sistema militare all’indomani dei processi sulle torture dei prigionieri in Iraq. Ora è un imbattibile giocatore di Poker, abile nel contare le carte ma disinteressato alla fama che il gioco-sport sembra volergli dare. Al suo fianco, un giovane in cerca di vendetta per il suicidio del padre, anch’esso ex soldato sotto le armi per lo stesso militare che addestrò il giocatore di Poker. Un’anima ormai bruciata e una che rischia di bruciare. Più che un revenge movie, è il tentativo – impossibile? – di non diventarlo e così permettere al giovane di salvare se stesso e il proprio futuro. Un cinema che cerca di eliminarsi, e fallisce. Perfetto.
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È stata la mano di Dio, di Paolo Sorrentino
È stata la mano di Paolo. L’ultimo film di Sorrentino è un lavoro intimista che non rifugge la ricerca estetico, che nel regista premio Oscar è narrazione, e si abbandona ai ricordi. L’infanzia di Sorrentino è incipit ed epilogo, ma nel tragitto c’è tanto altro: la Napoli ricordata e attraversata nelle vie che sono prima educazione estetica, il villaggio-famiglia animato come il circo e l’arrivo di Fellini, che fa un cameo di sola voce, come i fantasmi che sussurano il futuro nell’orecchio. E poi, Maradona. Più un ideale che un uomo, una persona-momento che segna la vita di Sorrentino perché coincide con la tragedia famigliare e la svolta personale.
Finisce come I Vitelloni, concede frasi da ripetere come mantra nei giorni più bui – “non ti disunire, Schisa” – e ritrova il coraggio di rispondere ai detrattori con un’evoluzione che lancia Sorrentino oltre gli ultimi anni di produzione, quelli segnati dall’Oscar e dall’incomprensione generale. Corre ancora una volta verso l’Academy e la statuetta d’oro, dove però la competizione è alta. Ma ancora una volta, questi sono discorsi da analisti. Restiamo con l’arte, quella barocca che questa volta porta la firma di Paolo, prima che Sorrentino.
Le sue maschere, simbolo critico e irriverente di una società evanescente, cadono nella limpida semplicità di un ritratto umano. Con le musiche di Lele Marchitelli, lontane dal magnetismo pop dei brani più patinati sorrentiniani e immerse in un’elegia classica, il film trova la sua più profonda dimensione. Scava nella realtà personale di ognuno con una dolce immediatezza comunicativa, che non può che far scattare risate e sorrisi sinceri.
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Il Buco, di Michelangelo Frammartino
È il 1961 e a Milano è appena stato costruito l’edificio più alto d’Europa, il grattacielo Pirelli. In pieno boom economico ed espansione industriale, la città si anima e costituisce la vita del Paese. Ma quella vita non interessa a Frammartino. O meglio, la racconta da una prospettiva inedita, da una vicenda secondaria, come sempre scelta chiave per rinquadrare un fenomeno inafferrabile come il boom economico. Allora, Il Buco ricostruisce le vicende di un gruppo sparuto di speleologi che partono all’esplorazione dell’abisso del Bifurto. Dalla punta del Pirellone, Frammartino, ci porta nelle claustrofobiche cavità della grotta che allora risultava essere la terza più profonda al mondo; ben -687 metri.
Il gruppo di giovani studiosi inverte l’esodo verso il prospero nord Italia dirigendosi nell’ormai sempre più abbandonato Meridione. Unico spettatore silenzioso dell’impresa un immancabile pastore e il suo bestiame, ormai firma di Frammartino. Il regista si (e ci) interroga sulle conseguenze delle scoperte scientifiche, anch’esse forse prodotto ognuna del suo tempo. Così come la novità e l’avanguardia si propagano nella Pianura Padana e nelle grandi città, così anche la luce del progresso irrompe nelle tenebre delle grotte, portando i suoi metodi e le sue misurazioni in terra di nessuno. Anche la ricerca diventa profanazione classificatrice volta alla sottomissione, allo sfruttamento e alla colonizzazione della montagna ancora inesplorata e selvaggia. Un film che esiste in sala, perché annulla lo schermo, diventa il puro buio che con tanta grazia e ambizione Frammartino e il suo Direttore della Fotografia hanno estratto dalle profondità della terra. In quel nero in cui tutto scompare osserviamo un cinema di fuori campi assoluti, di ostilità all’immagine e di vocazione alla scomparsa. Un cinema unico, e italiano. Da tenersi stretto per il futuro delle sale e della nostra esperienza sensoriale al cospetto della settima arte.
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The Last Duel, di Ridley Scott
Presentato alla 78esima Mostra Internazionale del Cinema di Venezia e da subito accolto con grande entusiasmo dalla Critica, The Last Duel ha subito un più triste destino nelle sale del mondo e poco dopo su Disney+, dove ora il film riposa in attesa di nuovi estimatori. Secondo Ridley Scott, che nel 2021 ha distribuito anche il suo House of Gucci, è “colpa dei millennials”. Una dichiarazione forte che ha sollevato qualche lamentela. Ma osservare oltre il box office rivela un film di una lucidità disarmante, contemporaneo – nonostante l’ambientazione medievale – più del tanto discusso Don’t Look Up di Adam McKay.
The Last Duel segue più prospettive alla ricerca di un’unica verità. Come nel Rashomon di Kurosawa, ma con un’attinenza all’oggi che Ridley Scott cuce alle sue vicende. Seguiamo prima Jean de Carrouges (Matt Damon), poi Jacques Le Gris (Adam Driver) e infine Marguerite de Carrouges (JodieComer). Una costruzione di questo tipo evidenzia fin dall’inizio l’impossibilità di conoscere a fondo i fatti di cui non si è testimoni, e sottolinea la relatività assoluta. Al centro della vicenda una violenza, quella che Jacques, amico/nemico di Jean, compie nei confronti di Marguerite, moglie di Jeanne. È lei la vera protagonista. Con la sua battaglia Ridley Scott mette in scena una riflessione importante sul consenso, sulla misoginia, sulle implicazioni dell’essere una donna in un mondo di soli uomini. La lucidità di The Last Duel propone spunti reali e non opportunitistici, rarità in un cinema che si aggrappa spesso ai tempi senza profondità.
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Dune, di Denis Villeneuve
Il film maledetto rompe infine la fattura. Adattare la saga di Frank Herbert sembrava impossibile: non ci era riuscito l’ambizioso progetto artistico di Alejandro Jodorowsky e con tentennamenti e numerose critiche aveva fallito anche David Lynch. Nel secondo anno di pandemia, Denis Villeneuve vince la sfida di Herbert e assieme quella di Warner Bros: convincere il pubblico e conquistare il diritto al sequel. Perché Dune è un film a metà, fermato in attesa di conferme.
Il grande cast ha di certo donato spessore al progetto: il principe Paul Atreides è Timothée Chalamet, al suo fianco Oscar Isaac, Rebecca Ferguson, Josh Brolin, Zendaya, Jason Momoa e Javier Bardem. Ma è la visione di Villeneuve a convincere in via definitva, con un cinema imponente e solido, eretto su navi cargo che attraversano lo spazio e atterrano con solenne gravità sul pianeta Arrakis. È ancora un prologo, ma convincente e capace di ritagliarsi un posto nelle visioni più riuscite dell’ultimo anno. Tra il blockbuster e la ricerca d’autore – più bravo diTenet a parlare al pubblico nonostante l’evidente e narrativa disidratazione della sceneggiatura – rompe la maledizione e promette una saga avvincente dove la tecnologia Imax potrà avere un finalmente la sua occasione.
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Titane, di Julia Ducournau
La discussa Palma D’oro al Festival di Cannes 2021 è un film atipico, tanto rivoluzionario quanto reazionario, alla ricerca di un nuovo rapporto tra corpo e cinema e significativo per la rappresentazione dei paradossi della nuova generazione di artisti. Alexia (Agathe Rousselle), spogliarellista e ballerina in uno showroom di macchine, è una figura ambigua, con cui lo spettatore fatica a parlare ma di cui subisce i gesti inconsulti, come il rapporto sessuale – dalla buffa e incisiva messa in scena – con una cadillac. Ciò che rende Titane un film folle e divisivo è che non si limita ad essere qualcosa legato allo schermo, ma si trasforma fin dai primi secondi un’esperienza totale che trascende il limite visivo. Titane inizia con un incidente, una bambina con il broncio costretta ad accogliere nella sua testa qualcosa che la cambierà per sempre e un piano sequenza lunghissimo di Alexia che balla carnalmente con la sua amata Cadillac, per poi uscire dal locale e uccidere con una bacchetta piantata nel timpano un ragazzo intenzionato a molestarla.
La violenza visiva lascia spazio ad un padre distrutto (Vincent Lindon), incapace di superare un trauma indescrivibile, gli omicidi pulp lasciano spazio ai lividi e alle cicatrici di una donna costretta a diventare qualcun altro, e a zittire per non svelare la sua identità. I rombi delle macchine e il sesso lasciano spazio al silenzio, a sguardi e abbracci capaci di scavare dentro due anime sole, unite dal caso e che riempiranno un vuoto lacerante tramite i loro corpi.
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